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La tradizione delle maschere

 

Di seguito, riporto alcuni brani tratti dai riti e alle tradizioni cilentane carnevalesche. Si tratta di una delle ricorrenze più ricche di simboli e significati, certamente una tipica espressione della cultura popolare in cui tutte le connotazioni sociali, psicologiche, economiche si fondono in un linguaggio verbale e non verbale, destinato a provocare con una sua incredibile forza d’urto un cambiamento della condizione esistenziale. La sua simbologia e gli antichi riti della cacciata dell’anno vecchio e l’avvento del nuovo, con la speranza che sia migliore, sono le caratteristiche tipiche di questa festa, in cui le maschere imitano la natura e la lotta del bene contro il male.

 

 

E’ entrato Carnevale

Tratto da: Antonio Di Rienzo, 1988, “Il tempo delle maschere”, Il Mezzogiorno Culturale, A. II – n. 8

 

Nel Sud siamo soliti dire: “E’ entrato Carnevale” (latino: introitus; dialetto: trasùto) con espressione che sta ad indicare l’inizio di un periodo più o meno lungo che in Campania prende l’avvio il giorno di Sant’Antonio Abate, mentre altrove il 2 febbraio.

Un felice periodo dell’anno caratterizzato dal travestimento, dal divertimento e da grosse abbuffate che dura fino al I giorno di Quaresima, il mercoledì detto delle Ceneri (che nel latino ecclesiastico suona come “feria quarta cinerum”), dall’uso di imporre sul capo dei fedeli le ceneri in segno di penitenza.

Quindi un lungo periodo festivo che raggiunge il culmine nelle domeniche, nella settimana grassa e nell’ultimo giorno, che da noi è il martedì, mentre nelle chiese a rito ambrosiano è la domenica successiva in Quatragesima. A Milano ad es. i quattro giorni che vanno dal mercoledì al sabato prendono la denominazione di Carnevalòn.

Balli, danze, piatti succulenti, maschere e scherzi contraddistinguono le feste carnevalesche.

Il rimpianto per il godimento che sta per terminare, da domani inizierà un periodo di digiuno e astinenza è ben riscontrabile nella denominazione “Carnevale”, dal latino Carnem levare (mediante un processo di assimilazione della finale e sincope) e nel nostro termine dialettale Carnu luvaro.

La festa: quando è lecito far follie

Il Carnevale è un avvenimento con il suo aspetto spettacolare-turistico (quest’ultimo riscontrabile solo nella cultura odierna) e soprattutto con quello festivo riesce a coinvolgere un po’ tutti, dai bambini agli adulti, da un luogo all’altro del globo, da Rio de Janeiro a Venezia, da Vienna a Napoli (unica eccezione l’estremo Oriente).

Esso conserva solo il ricordo delle sue origini arcaiche con rituali rigeneranti che avvenivano in un periodo specifico dell’anno quando c’era il passaggio dal ciclo vitale del riposo della terra a quello del suo risveglio ed ha come suoi antecedenti le feste dei Fescennini, dei Saturnali e delle Atellane.

Rituale del ciclo invernale quindi collegato simbolicamente con la morte e la Resurrezione mediante una rappresentazione scenica del dramma dell’uomo e della natura.

Elemento caratterizzante è la maschera, il travestimento, che accoppiato all’elemento trasgressivo e a quello dell’inversione dei ruoli (es. servo/padrone) doveva fungere da fattore protettivo, quasi ad esorcizzare il male.

I cento volti del male

Con il fuoco (i fuochi di Sant’Antonio) inizia e con il fuoco (quello per bruciare il fantoccio di paglia) termina il periodo di Carnevale.

La funzione purificatrice della cerimonia del fuoco, che può distruggere ogni influenza malefica e rinnovare la forza vitale della natura che si rigenererà, è propria dei rituali del ciclo agrario. E’ la morte della natura, fase di passaggio per consentire la rinascita del seme: periodo carico di precarietà questo che bisognava esorcizzare.

E “chissà se domani ritorna la vita?” è l’interrogativo scottante dell’umanità. Bisogna fare gli scongiuri, bisogna ritornare al rituale: allontanando il Male tentando di impossessarsene e di esorcizzarlo.

Nelle società arcaiche esposte al rischio esistenziale, quando era inesistente la forza tecnologica per dominare la natura, quando per impetrare la grazia del raccolto, delle piogge, si ricorreva a qualche nume tutelare (e poi a qualche Santo), quando l’eccesso o la mancanza di precipitazioni erano ugualmente pregiudizievoli per una “buona annata”, il Male veniva personificato nel Diavolo. Questa maschera quanta importanza ha avuto nelle feste di Carnevale del passato!

(…)

Una volta quello climatico-naturale era il fattore determinante della vita del contadino, oggi che, per così dire, si sente meno il suo peso, si avverte maggiormente l’incidenza del fattore storico-politico-sociale.

La condizione di insicurezza, quindi, è sempre presente anche se ha cambiato volto: guerra, crisi economica e terrorismo diventano le forze, difficili da dominare e capaci di creare un nuovo corso alla storia, da esorcizzare!

A questo punto entra in gioco la forza del “festivo”: la forza esplosiva di una festa come questa di Carnevale che alla funzione magica suaccennata assomma quella eversiva della licenziosità. Giochi, divertimenti lascivi contraddistinguono il nostro Carnevale quasi ad identificarsi con esso.

“A Carnevale ogni scherzo vale”; è la valenza del gioco, del divertimento il significato più positivo della festa. Tanto è vero che si verifica la sovrapposizione del significato delle parole: Carnevale-Festa-Gioco.

L’incontro fra uomini nella festa, quasi una continuazione del gioco infantile, manifesta l’esigenza collettiva di estrinsecare necessità sociali ed umane ed è l’occasione per liberare le cariche angoscianti accumulate nell’esistenza!

C’era una volta il Carnevale

IL Carnevale, con pezzi di spettacolo che si ripetevano di casa in casa, da un paese all’altro, alla ricerca del divertimento e di una abbuffata senza eguale, raggiungeva il culmine della festa proprio negli ultimi giorni.

Ad Ortodonico, a Fornelli, a Stio, a Trentinara, ad Ogliastro C., ad Altavilla Silentina, a Lustra (altrove è venuto meno anche il ricordo) abbiamo registrato la Rappresentazione dei mesi dell’anno, quella dei Mestieri e la Farsa di Zeza.

Quasi dappertutto oggi si può assistere a sfilate di carri e maschere che imitando quelle più famose di Viareggio mostrano la decadenza del folk più genuino e la perdita di autenticità.

Il corteo composto dalle “maschere” (Diavoli, Preti, Turchi, Pulcinella, Zingare) avanzava per le vie del paese preceduta dalla maschera del Gran Turco che cantava così:

Arrassa ca mia ca passo,

che bella gioventù ca porto

appriesso!

Vengo ra la Turchia;

che bella gioventù ca tengo io!

 

Antonio Di Rienzo

 

 

Rituali nel Cilento

Il rito del “Carnevalone”, un pupazzo che rappresenta l’anno vecchio trascinato nelle strade del borgo e incendiato nella pubblica piazza, è una manifestazione tipicamente cilentana. Il martedì grasso il Cannuluvàro (Carnevale), un pupazzo di paglia, viene disteso in una bara e portato in spalla da quattro maschere vestite di nero. Alla fine della sfilata è bruciato. L’atto del bruciare il fantoccio è il modo di esorcizzare con il fuoco ogni influenza malefica e rinnovare la forza vitale della natura che si rigenera. La rinascita del seme, infatti, è il modo di allontanare la precarietà e il passato pieno di stenti e disagi. La sera della vigilia di Carnevale i màschari (maschere), la cui identità doveva essere celata, bussavano alle porte chiedendo vino e salsiccia. Il dovere di ospitalità e la tradizione imponevano che le maschere fossero fatte entrare in casa e che fosse loro offerto da mangiare e bere.

(Tratto da: E. La Greca, A. La Greca, A. Di Rienzo, “Usi e costumi del Cilento”, CI.RI. Cilento Ricerche, pp.62-64)

 

 

La sfilata

La tradizione culturale del Cilento ha valutato il rito carnevalesco, con la sfilata delle maschere e la morte del Carnevale, ed ha condiviso la dissacrazione di valori, quali la morte che “non fa più paura, ma suscita ilarità”: tutti piangono il Carnevale, ma poi finiscono con il fare “una colossale abbuffata fino all’indomani”. Il significato del pranzo a base di dolci serviti di solito nelle grandi occasioni è emblematico circa l’importanza di questa ricorrenza. Le maschere più rappresentative sono:

  1. la sposa (rigenerazione),
  2. il prete (bene)
  3. il diavolo (male).

Il giorno della sfilata nelle prime ore del mattino si annuncia con la “tòfa” (buccina) l’inizio della manifestazione e si convocano i figuranti presso il punto di raccolta. Pulcinella esce di casa con le figlie, “zite” (uomini vestiti da donne) per la passeggiata. Essendo geloso fa piantonare le figlie dal “volante” (lacchè, fratello delle zite) e dal “turco” (servitore di Pulcinella); i due girano intorno alle donne, in senso contrario l’uno dall’altro, ballando. Pulcinella agita cantando un grosso corno di bue sia per scongiurare il malocchio, sia per salutare i cornuti. Il canto è rivolto alle figlie che devono sposarsi: il padre promette una buona dote ma le avverte che il ballo avvenga in modo armonico e non provocatorio, altrimenti con il corno le ucciderà. Ogni tanto uno dei preti si stacca dal vescovo e rapisce una “zita”; Pulcinella con urla piene di rabbia cerca di avvertire il figlio dell’accaduto. Il volante interviene insieme al turco per salvare la zita, si crea un parapiglia che coinvolge il pubblico. Entrano in scena tutti i personaggi: il barbiere rade chi gli pare, il pescivendolo mette sotto il naso degli spettatori pesce dall’odore sgradevole ed il notaio stila testamenti contenenti parole licenziose. Lungo il percorso si presenta l’insidia dei cacciatori. Questi ultimi scelgono malcapitati spettatori e li infastidiscono. Se il malcapitato resta impassibile il cacciatore è sconfitto, ma se si gira per conoscere l’identità dell’importuno viene irrorato di crusca. Intervengono allora vari personaggi mascherati che inveiscono sul malcapitato: il medico ne accerta il decesso e diavolo e prete si contendono la sua anima. Due personaggi erano particolarmente attesi dal pubblico: il “cardalàna” (lavoratore del lino), che produce battute a doppio senso rivolte alle donne; il personaggio doppio (manichino posto sulle spalle di un attore ricurvo) che sta ad attestare l’animo doppio (doppia faccia) di molte persone. Durante il corteo, la Morte lancia i propri lazzi contro le persone anziane (che fanno scongiuri e spesso le lanciano contro oggetti) e le invita a seguirla. Viene offerto vino ai mascherati che comunque per il freddo ed il movimento difficilmente diventano ubriachi.

(Tratto da: F. Dentoni Litta, 1987, “Antiche tradizioni del Cilento”, CI.RI. Cilento Ricerche, pp.77-80)

 

 

Il Chiavone

Famosa per il Carnevale, che anticamente costituiva una antica e consolidata tradizione, è Cardile, che ancora rivive il vecchio rito del Chiavone. Per alcuni, si tratta di una clava, una “piroccola”, un bastone che veniva utilizzato per bussare alla porta del malcapitato da prendere in giro, per altri sta a significare più semplicemente la chiave. Di derivazione spagnola l’etimologia qui riportata trae origine dai quartieri chiusi da una massiccia porta serrata con una grossa chiave, affidata agli uomini delle corti, che dopo aver chiuso le proprie mogli nelle abitazioni durante il periodo di Carnevale, uscivano per il paese a far visita agli amici, bussando alle loro porte con tale chiave.

Il Chiavone è una filastrocca le cui frasi erano combinate e redatte a seconda di ciò che aveva fatto di eclatante il malcapitato durante l’anno. Egli, in occasione del Carnevale, in presenza di persone mascherate che si recavano presso la propria casa, doveva tenere in mano una candela accesa ed ascoltare la lunga filastrocca che, dopo una breve introduzione, metteva in rilievo tutti i difetti dell’interessato. Il componimento si concludeva con avvertenze e consigli affinché in futuro il beffeggiato non commettesse più tante sciocchezze.

Il Chiavone era redatto in anticipo da una persona che si cimentava con strofe e rime, poi era declamato durante il rito del Carnevale.

(Tratto da: P. Martucci, A. Di Rienzo, 1999, “Il sacro e il profano”, Edizioni Studi e Ricerche, p.74)

 

 

Di seguito riporto una filastrocca dedicata ad Antonio Manna.

Mentre infuria il pazzo baccanale/per la fine del grasso carnevale/profitta della nostra vecchia usanza/per incarnarti, in versi, un po’ la panza!/Pubblico accusatore, il tuo processo/in breve, sarà fatto proprio adesso/e la condanna che schivare tenti/pubblicata sarà a li “quattro venti”/I capi d’accusa sono parecchi/tra i quali alcuni nuovi ed altri vecchi/e dopo studiato il tuo processo/ho conchiuso, dolente, che sei fesso!.

Il Chiavone parla poi dei misfatti di Antonio Manna, del suo modo di fare profitti e speculazione, ma anche delle sue pessime imprese come cacciatore, di alcune brutte figure fatte in paese e delle fesserie che racconta.

Per le illustrate accuse la gran corte/ti condanna alla pena della morte/da eseguirsi con arma con bacchetta/e ciò con la solita scoppetta./L’arma sarà però carica a sale/perché ‘Ntoniuccio non ne soffra a male/convinta la gran corte che il sentire/lo sparo basterà a farlo morire!.

La filastrocca si chiude intimando ad Antonio Manna di comportarsi bene d’ora in poi: Onde ‘Ntoniuccio resti un uomo a moda/e non più un asinello senza coda/e pensi ancora che il maggior diletto/la gran corte lo prova col piretto. Il piretto è il recipiente con il vino: il tutto si conclude con una abbondante bevuta.

(Il Chiavone fu composto da Generoso Mastrogiovanni e letto da Nicola D’Elia, in occasione del Carnevale del 1937 a Cardile)

 

 

Zeza

L’antico Carnevale, in uso fino al 1978 e ripreso quest’anno a Trentinara, non è la solita riproposizione dei carri allegorici, ma una antica rappresentazione trovata in documenti datati intorno al 1400 che mette in scena tutti i vizi delle popolazioni dell’epoca.

Il personaggio Zeza, molto ricorrente nel Cilento e nel napoletano in genere, si riferisce a Lucrezia, tipico nome nobiliare nella Napoli a partire dal 1400; ma già nel 1500 lo stesso nome era anche quello delle prostitute. Zeza è la madre ed ha anche l’aspetto della prostituta.

(cfr.: A. Rossi, R. De Simone, 1977, “Carnevale si chiamava Vincenzo”, Ed. De Luca, pp.102-103)

 

A Trentinara, è stato riprodotto in piazza e negli angoli più caratteristici l’antico rituale del 1978.

Si è celebrato il matrimonio di due sposi Lucrezia e Tolle, contrastati fino all’ultimo momento dalle rispettive suocere, che tra lazzi e burle vengono sposati da un prete bislacco. Due vecchi personaggi: Vavo (Zavo) e Quaresima vengono in piazza. Vavo è un uomo del popolo, rappresenta il ricco che si dedica ai bagordi e dissipa il patrimonio familiare. E’ la moglie Quaresima che lo accusa pubblicamente: è condannato ad essere bruciato vivo. Per l’occasione Vavo è posto su un asino ed un fantoccio, vestito come lui, su un altro. Vavo muore, la Quaresima seguirà di lì a poco la stessa sorte. Infatti, in alcuni paesi del Cilento, il fantoccio chiamato Quarajésima viene incendiato sulla pubblica piazza. Sulla scena compaiono vari personaggi: una donna incinta, che genera di solito un animale nella trasposizione simbolica, l’avvocato che difende Vavo, il giudice, il prete, il diavolo, Pulcinella e l’orso (che rappresenta la paura e vuole significare chi dà fastidio, oltre all’arroganza della gente).

(La documentazione è stata fornita da Pietro Marino, Trentinara, 13.02.1999)

 

Per Marialba Russo, che descrive la manifestazione del 1978 e riprende le argomentazioni di Annabella Rossi e Roberto De Simone, “la donna che genera il pupattolo di stoffa simbolizza la rinascita, il trapasso dalla vita alla morte”. La donna che è in realtà un uomo travestito rappresenta la divinità ermafrodita, la doppiezza. Gli stessi due Vavo sottolineano questo simbolo. Si tratta però anche del rapporto nascita/morte, del nuovo che soppianta il vecchio. La posizione differente è quella di coloro (gli stessi Rossi e De Simone) che vedono nel parto e nella nascita di un animale “il tentativo di respingere il rapporto con la donna che è simbolicamente negativo”: il sesso della donna è irritazione del maschio, il parto è anche espulsione del male. La rappresentazione delle maschere racchiude significati rilevanti: “Pulcinella si autogenera per il fenomeno di partogenesi; e l’atto di covare (…) lo pone in connessione con la gallina e i volatili in genere”. La gallina è infatti simbolo della bisessualità in quanto ano e sfera genitale non sono differenziati.

(Cfr.: A. Rossi, R. De Simone, 1977, “Carnevale si chiamava Vincenzo”, Ed. De Luca, pp.75-76)

 

 

La filastrocca

 

Carnuvàru viecchio e pazzu,

s’è binnùto ‘u matarazzu

pi ccattà pane e bino,

tarallucci e cutichìni.

E mangiannu a crepapèdda,

na muntagna ri frittièddi

l’è crisciùto nu panzòni

c’assumiglia a nu pallonu.

Vivi, vivi, a l’improvvisu,

li rivènta russo ‘u visu;

poi li scoppia puri la panza

mentri mangia, mangia, mangia.

Accussì mori Carnuluvàru

E li fannu ‘u funeràli.

Ra la pulvera era natu

E into la pulvera è turnàtu!”.

(Cfr.: E. La Greca, A. La Greca, A. Di Rienzo, “Usi e costumi del Cilento”, CI.RI. Cilento Ricerche, p.64)

 

 

NOTA: “La Canzone di Zeza” e la “Rappresentazione dei 12 mesi” sono disponibili nel sito alla voce pubblicazioni.

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