La quietanza meridionale. I paesi dell’osso dopo la ruralità
di Antonio Pellegrino
In lungo e in largo, nell’appennino dell’osso e della memoria, si incontrano i resti della religione di ieri e di quella del nostro tempo e sempre più spesso si ha la sensazione che passato e modernità si siano condensati in una sorta di tempo presente, una strana fusione tra pietra e cemento, una specie di araldica comunitaria decaduta, che nell’abbandono e nello spopolamento, mostra al futuro i paesi del prima che tutto crolli.
L’inerzia e il vittimismo vanno anche aldilà di quello che fu il cristo di Eboli o il familismo di Chiaromonte e le ragioni e le visioni storico-politiche sembra si siano intrattenute nel parco giochi del solo folclore, del campanilismo indigeno, in qualche revisionismo strampalato e nella retorica nazional-popolare. Ne risulta che nei paesi dell’osso calabro lucano, lo spopolamento porta il nome di una ruralità che forse non esiste più ed è evidente che oramai solo i funerali conservano verità comunitarie, di scambio, di reciprocità. Solo la morte nella sua straordinaria finitezza è ancora un invito alle montagne, ai campi, agli antenati. Questo è il deserto identitario del tutti uguali, dove tutto, ma proprio tutto può diventare rievocazione, prodotto tipico, immaginario, mercato. Questa è la contemporaneità dei paesi di oggi, dove ogni caratteristica “particolare”, talvolta vera, talvolta inventata, viene assolutizzata nella logica delle archeologie etnografiche della musealità, per diventare oggetto e quindi consumo.
Pasolini aveva ben inquadrato la cesoia che si stava per abbattere sulla millenarietà, sul particolare, sul sub-strato di bellezza spontanea che popolava l’Italia dei paesi. In pochi sono riusciti a cogliere i segni dell’omologazione dilagante e a capire che il rischio era la definitiva scomparsa della capacità dell’uomo di interpretare localmente lo spazio fisico di vita materiale e immateriale secondo logiche e pratiche sedimentate nei secoli e nella storia. Oggi la chiamiamo economia circolare questa cosa qui, gli antropologi la chiamavano cultura! Mica è poca roba possedere un ethos ed un ethnos indigeno! Ma a chi diamo la colpa, a quel qualcuno che negli anni sessanta del secolo scorso è definitivamente uscito dal medioevo feudale con la modernità? Nell’era in cui dovevamo svilupparci, è stato molto più semplice scegliere il protagonismo migratorio dell’altro piuttosto che del nostro. L’altro come meglio di noi, come novità, come diversità, come via! È cosi che è successo che la mente locale è diventata mente globale e la deriva dei luoghi, quelli della storia di sempre, ci conduce definitivamente nell’abisso funereo della fine dei mondi. Tanti piccolissimi mondi persi per sempre, proprio come è successo nel divenire di tante culture umane, con la differenza che adesso quello che ci resta è un unico mondo per tutti uguale.
Ma questa è storia ufficiale e non vale la pena approfondire la questione in nome di una questione che è stata definitivamente risolta da questa modernità, nel senso che senza il centro non c’è più la periferia e senza periferia non siamo più il sud di nessuno. Piuttosto, perché non pensare e praticare l’osso come la spina dorsale, la struttura portante, il luogo da cui far partire il nuovo endogeno, la rigenerazione. I paesi dell’appennino sono millenari, sono una grande scuola di adattamento e di diversità, sono uno spazio di futuro tutto da sperimentare. Nelle piaghe della storia ci sono anche le opportunità e come è successo sempre per l’umanità, un barcone o una zappa, sono i più grandi atti di fede, di speranza e di volontà. Forse sono anche bestemmie, ma poi diventano necessariamente preghiere. Solo così possiamo scoprire che il nostro passato non è il nostro vittimismo, quella cultura del lamento che purtroppo ancora non sappiamo riconoscere bene, e considerare che tutto sommato siamo vivi e capaci di innesti, fermentazioni, sedimentazioni.
Ci serve capire il dopo, dopo della ruralità cosa c’è per i paesi dell’osso? Quali pratiche materiali e simboliche dobbiamo sincretizzare? Di certo dobbiamo investire nel millennio e farci porto fin sopra le montagne, fin dove l’ultimo campanile si accompagna all’orto e al cimitero!
Per questo dobbiamo dire che la ruralità oggi è prevalentemente folclorizzazione, un qualcosa a cui partecipiamo sempre più con euforia che con nostalgia, e a cui assegniamo lo spazio dedicato tradizionalmente al rito idolatrando un cibo che ha sostituito un santo. Senza le pratiche comunitarie la ruralità è diventata una farsa bucolica per dirla col coraggio di una verità. Si perché quale verità esiste ne: il paese del vino, dell’olio, del grano, del carciofo, dell’asparago e poi ancora il paese della poesia, il paese dei murales, il paese delle maioliche, il paese della carta, il paese dell’accoglienza, della solidarietà, il paese…, il paese.., il paese della cuccagna forse? Questa è l’idea comunicativa di chi antepone la parola alle pratiche e molto spesso in un solo colpo, cerca la fama per una cipolla che manco produce, per un vino che non beve, per un grano che non mangia. Dovremmo pensare ad un termine che indichi definitivamente questa idiozia campanilistica, che debilita soprattutto il futuro dei paesi, una cipolla non può diventare un feticcio, un vino non può essere un idolo estetico, il grano non è una tecnologia da registrare.
Intanto tutto viene millantato all’ennesima potenza e proprio come quando un contadino con la zappa dissoda un terreno per lasciare terra morbida ed arieggiata alla pianta, cosi la comunicazione ammorbidisce le coscienze indigene per svuotarle della mente locale in nome di un etere infinito e modellante. Replichiamo i modelli di produzione valoriale dell’industria senza esserlo. Non ci sono difese e la democrazia si è sottomessa al mercato, alla finanza e nello stesso tempo ha legalizzato l’ignoranza, la mediocrità, il qualunquismo. Questa democrazia non difende la diversità. Questa democrazia non conosce la storia dei popoli e delle comunità, questa democrazia non è più nazionale perché ciò che la compone non è più locale.
La ruralità dell’appennino è cosi globale da dipendere dall’industria chimica nelle produzioni agricole come le produzioni intensive dei peggiori posti del mondo. Le farmacie agrarie ti dicono e ti danno cosa seminare, come concimare, come trattare, e forse anche come morire. La volontà del contadino non esiste più e il cervello fino conserva ancora l’idea che il veleno si debba chiamare medicina. D’altronde pure il contadino è diventato imprenditore agricolo. Omologati in principio nel consumo, nel cibo abbiamo esaltato l’altro da noi rieducandoci prima a seminare e a piantare e poi a mangiare. L’altro da noi è diventato un percorso di acquisizione di nuovi status, tutti da raggiungere in nome del mercato, della produzione seriale e infinita. Questo è quello che fanno in molti, poi ci sono i pochi, quelli che tracciano altri percorsi, una specie di apostolato pioneristico spesso incompreso e rinnegato, ma anche molto apprezzato e sostenuto. Infine ci sono i pochissimi, i rari indigeni consapevoli, quelli che in ogni paese fanno la politica della vigna, del grano e dell’ulivo senza dovere ringraziare l’inventore di una dieta fatta di chiacchiere. Il mediterraneo oggi più che mai è la strada e non la tavola.
L’appennino deve guardare al mediterraneo con gli occhi del mediterraneo, e non serve il PIL per riconoscersi nella verità di un futuro da costruire. Serve l’umanità, il selvaticume, il coraggio e l’amore. Serve una nuova scienza popolare, serve tornare alla terra e alle comunità.
Eccola la quietanza meridionale, l’idea e la pratica del proprio per re-innescare i germi di una vitalità obbligatoria senza ripetersi nel revisionismo, nel legittimismo, nel qualunquismo e soprattutto senza tornare indietro. La quietanza meridionale è una pace e una guerra insieme, un riscatto definitivo nel protagonismo del proprio. All’inizio del nuovo millennio la partita non è più nord sud ma sud sud. Come non mai dobbiamo liberarci da noi stessi e interpretare la contemporaneità alla luce dei cambiamenti climatici innanzitutto, ma anche gettare le basi per nuovi sistemi valoriali incentrati sulla condivisone e sulla costruzione di nuovi mondi culturali. Solo le pratiche comunitarie possono superare la comunicazione come strumento/fine dell’imbonimento culturale. Un paese però, non è il centro del mondo poiché per guardare il proprio ombelico si corre il rischio di distrarre lo sguardo dall’orizzonte che muove il tempo. I paesi sono solo la diversità, la spontaneità, che si origina da una radice.
Sono quel puntello che prova a risolvere il chi siamo o quantomeno gli mette un costume. Cosi la relazione diventa la chiave per interpretare l’alterità e forse così l’altro ci fa meno paura o meno invidia. L’albero per muoversi mette le radici.
È proprio vero che tutto dalla terra viene, il grano, il coltan, il silicio, il petrolio! Ahi che dolore il cane a sei zampe per una terra che conosceva le sette sorelle solo come madre di Cristo. Chissà quale sarà la disgrazia di domani, quella di oggi è che l’Europa ha il suo Texas in Lucania! La modernità irrompe con forza e moneta sonante nella val d’Agri, ma non regala né felicità né futuro, a conferma che il prima che tutto crolli riguarda anche i soldi e l’affarismo d’avanguardia. La quietanza meridionale guarda al sole, pensa ai tetti, alle sorgenti, ai fiumi, ai campi, ai boschi, al mare. La quietanza meridionale è una atteggiamento, un’impostazione, un orientamento all’operosità nel proprio senza piangersi addosso. Quale poesia c’è nei muretti a secco per diventare patrimonio Unesco, allora l’acqua e il sole quando lo saranno? La quietanza meridionale è acqua e sole e tutto il resto ognuno provi a metterlo con la pratica prima e poi con la parola.
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