I Basiliani e le comunità cilentane
di Pasquale Martucci
A questi monaci, arrivati nel territorio a nuclei sparsi o più spesso accompagnati da intere famiglie, caratterizzati nella fisionomia da un volto scarno, dalla barba fluente, avvolti nel saio, scalzi o coi piedi riparati da corteccia di alberi e pelli di animali, con delle borracce ricavate da lunghe zucche incavate avvolte in panni ruvidi, si devono molti insediamenti umani alto-medievali nel Cilento. (1)
Nella lunga storia del Mezzogiorno, ed in particolare della terra cilentana, si è affermata una cultura religiosa popolare che ha inciso molto sulla società e le sue tradizioni.
Essa si è sviluppata in seguito alla comparsa dei monaci basiliani, che giunsero quando in Oriente si affermò la lotta contro il culto delle rappresentazioni religiose, dopo la salita al trono di Leone III di Isauria (Anatolia): in seguito al conflitto tra gli iconoclasti e i tradizionalisti iconodùli (adoratori di immagini), Leone ordinò la distruzione delle immagini. Ci furono rivolte e repressioni e la Chiesa di Roma, considerando che le icone avevano profonde radici nelle comunità, ebbe un orientamento opposto e scomunicò nel 731 l’imperatore di Oriente. (2)
Nel nostro territorio, le prime comunità di religiosi erano già presenti all’epoca degli apostoli: questi ultimi avrebbero fondato tre importanti diocesi: Velia, Bussento e Paestum, anche se le stesse erano “circoscrizioni amministrative corrispondenti alle poleis dell’età greca e alle civitates di età romana”. (3)
Nella seconda metà del III secolo, si diffuse il monachesimo, quel fenomeno socio-religioso, sviluppatosi nel basso Egitto, che si fondava su ideali pauperistici, su una totale osservazione della castità e sulla conduzione di una rigorosa vita ascetica. La tradizione vuole che il corpo di San Vito, giunto tra il 304 o 305 a.C., fosse trovato lungo il fiume Sele; inoltre, nel IV secolo, riunioni di credenti si tenevano nel tempio di Atena (Cerere) a Paestum; a Velia e Bussento vi erano tracce rispettivamente di “un oratorio cristiano” e di un vescovo cristiano. Le diocesi meridionali non cercarono in questo periodo di stravolgere le antiche usanze preesistenti alla loro fondazione: i vescovi avevano margini di autonomia e la usavano per far convivere “abitudini e mentalità pagane con valori e mentalità cristiane”. (4)
Dopo la promulgazione dell’Editto di Costantino nel 313, in cui si riconosceva la libertà di culto ai cristiani, questo modello di vita fu seguito anche in Palestina, Siria, Mesopotamia, Asia Minore e a Costantinopoli. Nel IV secolo i monaci incominciarono a organizzarsi in forme di vita in comune, stanziandosi in determinati luoghi, venendo più direttamente a contatto con i fedeli, ubbidendo a un superiore, pregando tutti insieme e dedicandosi all’autosostentamento grazie a semplici tecniche di agricoltura. (5)
L’intento era di indirizzare la comunità verso i veri fondamenti della religione e della fede. I caratteri della religione cristiana sono costituiti dalla “rivelazione divina”, dai dogmi, dall’attività missionaria, universalistica, “soteriologica ed escatologica”, che la fanno entrare nella tipologia delle “religioni moderne”. Si differenzia dalle altre per il “culto di Cristo”, inteso come “Dio fattosi uomo per salvare l’uomo, morto e risorto”. Il culto nasce dentro il “giudaismo”, una religione rivelata che considera il suo popolo eletto che deve essere iniziato mediante il “battesimo”. (6)
Lo sviluppo della cultura cristiana è nel rapporto uomo/divinità, terreno/aldilà. Intorno a questi elementi si modificò la base del vivere civile anche nel nostro territorio, molto influenzato dalla presenza del clero e delle manifestazioni religiose da esso esercitate.
Quando l’Impero Romano fu diviso a metà tra Occidente ed Oriente, le chiese avevano composizione territoriale e quella di Roma manifestava grossi segni di declino: l’importanza maggiore della Chiesa d’oriente era attestata dalla sua migliore organizzazione, oltre che adesione ai suoi disposti da parte delle popolazioni. (7)
Nelle prime comunità di cristiani, il presupposto che teneva unita una aggregazione di fedeli era la trasmissione di esempi di una vita fondata sui precetti religiosi: si affermò allora l’importanza della morte come continuazione della vita e si sostenne che la vera nascita è la morte, per raggiungere la gloria del Paradiso. Per cui, il martirio in nome della religione divenne un’usanza difficilmente discutibile. Il corpo del martire divenne oggetto di culto: sangue, ossa e ceneri venivano conservati, perché a loro si attribuiva un potere miracoloso. Le reliquie, i resti mortali dei martiri e dei santi, servivano per non smarrire il ricordo, per non dimenticare che il sacrificio non era la sconfitta ma “la vittoria di un essere prescelto dal Signore”. (8)
La forma devozionale più importante fu dunque il loro culto: i fedeli accorrevano in massa, si prostravano davanti le sacre spoglie, rivolgevano preghiere e intonavano canti e inni per ottenere favori terreni e interventi taumaturgici. I martiri e i Santi divennero i patroni della comunità. Le loro tombe erano considerate punto di incontro tra cielo e terra, uno spazio per entrare in contatto con il soprannaturale. Le richieste di avere un proprio Santo da venerare erano enormi, ed allora si scatenò una caccia alle reliquie, si moltiplicarono le scoperte di parti di corpi di martiri dispersi, che furono depositati nelle chiese. A nulla valse l’Editto di Teodosio del 386 che sancì l’inamovibilità dei corpi dei martiri e il divieto del commercio di reliquie. (9)
Il cristianesimo era una religione urbana e di conseguenza le aree rurali erano pervase dalle credenze magiche dei contadini, in quanto resistenti ad accettare i dettami della nuova religione, che stentava ad affermarsi per la scarsa presenza del clero e della sua opera di evangelizzazione. Allora l’opera della religione cercò di intervenire sulle strutture sociali di base: famiglia, villaggio, istituzioni civili, organizzazione del tempo, calendario. In seguito furono introdotte le feste di Pasqua e successivamente il Natale, ristrutturando il calendario liturgico: sotto Teodosio, la domenica divenne giorno festivo dedicato al Signore e la messa fu obbligatoria. (10)
Quando giunsero i seguaci di Basilio, si insediarono nei territori sottomessi all’Impero d’Oriente fondando chiese e comunità monastiche; si spinsero anche in località che non appartenevano all’Impero, come ad esempio il Cilento longobardo di lingua e cultura latina. (11)
Con la comparsa dei monaci orientali, il territorio cilentano subì una importante e feconda trasformazione. Tra l’VIII e il IX secolo, i basiliani incisero molto nella rinascita agricola e sociale, attraverso la costruzione dei monasteri e la lavorazione delle terre circostanti. Con il tempo alcuni coloni pagando, mai in danaro, un canone ai monaci, iniziarono a coltivare e a rendere fertili i terreni. (12)
Lo sviluppo di questo fenomeno determinò la nascita di tre importanti insediamenti monastici nel sud della nostra penisola. Un primo insediamento, denominato Mercurion, nacque in Calabria settentrionale, nel territorio del fiume Mercure, delimitato tra Laino (CS), il Castello di Mercurio e S. Nicola dei Greci (S. Nicola Arcella), un’area ai confini tra i domini longobardi e quelli bizantini, una “terra di nessuno” che ospitò i tanti monaci erranti. La seconda enclave monastica, il Latinianon, si sviluppò nella valle del Sinni, ai confini campano-lucani e prese il nome dall’antica città di Latiniano. I monasteri che nacquero all’interno di questa “eparchia” (diocesi nell’attuale significato) iniziarono a stringere rapporti più intensi con le popolazioni locali. Il terzo insediamento nacque nel basso Cilento, ai piedi del Monte Bulgheria dove era giunto San Nilo per sfuggire alle persecuzioni ed aveva trovato alcuni eremi e cenobi bizantini. (13)
Nell’VIII secolo si accelerò il processo di evangelizzazione del territorio; l’arrivo dei monaci favorì il miglioramento dell’agricoltura, grazie all’aumento del lavoro dei contadini e il loro coinvolgimento nel recupero di terreni abbandonati per coltivarli. Tra le innovazioni portate dall’Oriente una delle più significative fu la canalizzazione delle acque rendendo più funzionale l’irrigazione dei campi. I monaci basiliani fondarono numerosi monasteri e accolsero sulle loro terre contadini e braccianti: nel X secolo fu fondato anche il cenobio di San Giovanni Battista, che per circa sei secoli godette di grande fama, nel territorio alle falde del Monte Bulgheria. (14)
Nell’attuale abbazia di Pattano riposano i resti di San Filadelfio; a Perdifumo si costruì il monastero italo-greco di Sant’Arcangelo; a Cuccaro Vetere quello di San Nicola; ad Acquavella, San Giorgio; a Terricelli si realizzò il luogo di culto dedicato a Santa Maria; ad Eremiti, Santa Cecilia; a Rofrano, la Madonna di Grottaferrata; a Velia sorsero due chiese, dedicate a Santa Maria e San Quirico; a Novi addirittura tre, la Vergine, San Giorgio e San Nicola. (15)
Con l’aumento della popolazione, i grandi possidenti fondiari e i priori dei monasteri concessero terre demaniali e private a gruppi di famiglie riunite in cooperative agricole. Ne derivò un notevole incremento della produzione che favorì gli scambi commerciali tra le piccole comunità cilentane e le grandi città. Se nella prima metà del secolo VIII la persecuzione iconoclasta incrementò il fenomeno del monachesimo, spingendolo verso i territori dell’Italia longobarda, in quanto nelle province bizantine non entrarono mai in vigore le leggi iconoclaste, nei secoli successivi le cose cambiarono. Nel IX secolo l’occupazione araba della Sicilia circoscrisse il monachesimo in Calabria, Lucania e Puglia; il loro ritorno in Trinacria avvenne solo con 1’arrivo dei Normanni. I Basiliani, durante la dominazione degli angioini (1266-1282), attraversarono una fase inesorabile e irreversibile di decadenza. Il suo declino nel Cilento si realizzò durante la dominazione sveva. Dopo l’anno Mille, i pontefici disposero che si incominciassero a fare le visite ai monasteri italo-greci e a catalogare mediante degli inventari tutti i loro beni, mobili e immobili. (16)
Le invasioni barbariche avevano spinto i monaci in territori interni; ad essi si aggiunsero anche molte famiglie che cercavano di sfuggire a persecuzioni. I primi nuclei si organizzarono intorno a cappelle di legno costruite dai monaci; solo più tardi sorsero le prime chiese, che furono dedicate alla Madonna nominata “hodegitria, protettrice dei monaci itineranti greci”; i santi nel territorio ebbero i nomi di “S. Nicola di Mira, S. Giorgio, S. Michele Arcangelo, S. Elia, S. Filippo d’Agira, S. Biase, S. Sofia”. (17)
Gli eremiti decisero di vivere in solitudine, in luoghi lontani e deserti. I Cenobi sorsero a partire dall’anno 320, nell’alto Egitto: erano comunità con più case circondate da un muro, governate da una organizzazione del lavoro, delle preghiere, dei pasti e di tutte le emergenze quotidiane. Nacquero anche forme diverse di insediamento monastico come le laure, costituite da un gruppo di anacoreti che vivevano senza regola e senza l’obbligo di stabilità, in celle isolate. Le laure erano attratte dal carisma di un monaco (si pensi ai monasteri basiliani), fondate sulla mutua assistenza e carità tra i fratelli ed ubicate in posti che favorivano il lavoro manuale. Erano meno isolate rispetto alle società circostanti. (18)
In conclusione, si deve all’opera dei basiliani un periodo di prosperità e di benessere per le popolazioni di questo territorio: attuando una politica di bassi canoni e la commercializzazione dei prodotti, le stesse cominciarono a rendere fertili i campi, conoscendo una condizione di vita più agevole anche grazie al conseguente aumento demografico. Poi le cose cambiarono, ma era ormai l’inizio dell’epoca feudale che si trascinerà nei secoli successivi e causerà una profonda frattura tra ceti ricchi e poveri, tra sfruttatori e sfruttati, tra accumulatori di latifondi e nullatenenti, tra potenti ed oppressi, come la storia ha tramandato alle future generazioni.
Note:
- A. Di Rienzo, 1987, “L’influenza Bizantina nel Cilento”, Il Mezzogiorno Culturale, A. I – n. 1.
- C. Alzati, “Il movimento iconoclasta”, in G. Filoramo (a cura di), 2005, “Storia delle religioni. Il cristianesimo”, Laterza, p.818.
- P. Ebner 1982, “Chiesa, baroni e popolo nel Cilento” Voll.2, Ed. Storia e Letteratura, p.13.
- Ivi, pp.15-17.
- C. Bellotta, 2012, “Il monachesimo basiliano nel Cilento. Il Cenobio di S. Giovanni a Piro”, in “Annali storici di Principato di Citra”, anno X n.1 Tomo 1, pp.130-145.
- A. Pincherle, “Cristianesimo” (voce), in Enciclopedia Italiana Treccani – vol. XI, Roma, Ed. 1949, pp.963-965.
- K. A. Fink, 1998, “Chiesa e papato nel Medioevo”, Ed. Il Mulino, p.13.
- S. Pricoco, 2005, “Dal concilio di Nicea a Gregorio Magno”, in G. Filoramo (a cura di), “Storia delle religioni. Il cristianesimo”, Laterza, pp.38-39.
- Ivi, pp.117-119.
- Ivi, pp.113-117.
- Cfr.: C. Troccoli, 1986, “Montesacro, antichissimo Santuario Basiliano”, Ed. Laurenziana. Sui Basiliani; P. Abbate, 1999, “Cenobi itali-greci e paesi del Basso Cilento”, Palladio Editrice; S. Borsari, 1963, “Il monachesimo bizantino nella Sicilia e nell’Italia meridionale prenormanne”, Istituto italiano per gli studi storici, Napoli; B. Cappelli, 1961, “Il monachesimo basiliano ai confini calabro-lucani”, Fausto Fiorentino Editore.
- P. Del Mercato, 1980, “Cilento, uomini e vicende”, Reggiani Editore, pp.20-21.
- C. Troccoli, 1994, “Pia guida del pellegrino”, Edizioni del Santuario, Novi Velia (SA), pp.12-18. Cfr. anche: C. Bellotta, cit.
- Cfr.: L. Tancredi, 1991, “L’Abbazia Basiliana si S. Giovanni a Piro (Salerno). Millennio della sua fondazione 990-1990”, Edizione Cantelmi.
- C. Troisi, 1984, “I Monasteri di rito Greco-Bizantino del Cilento nell’alto medioevo”, in AA.VV., 1987, “Cilento a occhio nudo” (a cura di M. Vassalluzzo), Massimo Villano Editore, pp.181-182.
- C. Bellotta, cit.
- P. Ebner, cit., pp.32-36.
- S. Pricoco, cit., p.126.
Molto interessante. Grazie.
Ringrazio lei per aver condiviso le mie idee