Ho ricevuto da Antonio Peduzzi uno scritto di Mario Tronti, a proposito ed intorno alla sua ultima pubblicazione: “La teoria nel deserto”, Solfanelli 2020. L’autore volentieri mi ha concesso la possibilità di pubblicarlo, con l’aggiunta di una sua riflessione che riporto alla fine.
Mario Tronti, filosofo e uomo politico, militante nel partito comunista ed eletto nelle fila del partito democratico, è un intellettuale impegnato nell’elaborazione di idee per la crescita della sinistra. E’ considerato uno dei fondatori dell’operaismo teorico degli anni sessanta, che con il volume: Operai e capitale (1966), ha rivoluzionato il dibattito culturale italiano. Ha insegnato all’Università di Siena Filosofia morale e poi Filosofia politica. E’ stato tra i fondatori delle riviste: Quaderni Rossi, Classe operaia e Laboratorio politico. Dal 2004 è presidente della Fondazione CRS (Centro per la Riforma dello Stato) – Archivio Pietro Ingrao. Riporto alcune delle sue ultime pubblicazioni: Con le spalle al futuro (1992); La politica al tramonto (1998); Noi operaisti (2009), La democrazia dei cittadini. Dai cittadini per l’Ulivo al Partito Democratico (2009); Per la critica del presente (2013), Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero (2015), Il popolo perduto. Per una critica della sinistra (con A. Bianchi, 2019).
Qualche informazione sul volume: “La teoria nel deserto”.
La decadenza della sinistra politica si vede dalla cancellazione della memoria della disfatta e dalla incapacità di conquistare un terreno sul quale esperire una teoricità capace di praticare una cesura dalla tradizione che consenta di far fronte allo stato di cose presente. Questa situazione è evidente dall’abbandono di Karl Marx alla letterarietà. Il compito di tornare a pensare è imposto dalla necessità di liberazione delle classi subalterne, perché non c’è politica senza teoria. La condizione essenziale di un nuovo inizio è costituita dall’essenza hapax della tesi di Marx sulla storia quale vicenda di lotte tra classi. La capacità di innovazione teorica deve portare con sé una resa di conti con le teorie dei nemici di Marx, Martin Heidegger e Carl Schmitt.
Eccomi Antonio.
Letto il libro. Credo che sia una delle tue produzioni migliori. Si capisce che arriva quasi a conclusione di una lunga ricerca.
Ho sofferto un po’ nelle pagine, molte, di tecnicismo filosofico, soprattutto nel corpo a corpo con il nemico Heidegger.
E’ ormai da troppo tempo che ti misuri, armi concettuali alla mano, con questo pensatore. Forse dovresti voltare pagina.
Il discorso cresce da quando all’inizio ben definisci il campo problematico agli ultimi capitoli, che ho trovato molto nuovi e puntuali: quelli sulla reticenza, sul fuoriuscito, sull’esilio e la figura dell’esiliato. Anche il capitolo precedente mi è molto piaciuto.
La morfologia del disfacimento, contraccolpo e contrappasso alla nostra cara idea del che fare?, la trovo attualissima e produttiva.
L’idea di fondo, su cui naturalmente concordo, è il passaggio epocale dell’incontro del movimento operaio con la teoria.
Attraverso Marx, è il fatto dell’esistenza del lavoro nella storia umana che ha costretto a fare i conti con questo dato di realtà.
Tu tendi a svalutare polemicamente il livello teorico di chi ci combatte. Ma bisogna distinguere. C’è chi ci ha combattuto ad alto livello.
Controbattere lì, serve per crescere. Semmai è più che giusto – è questo la teoria nel deserto! – far notare l’età di squallida decadenza in cui è precipitato – ma da quando, questo sarebbe da indagare! – il pensiero del nemico come dell’amico.
E vengo a un punto di dissenso. Non condivido la parificazione assoluta che tu fai di Heidegger e Schmitt.
Intanto sono due figure del tutto diverse. L’uno il filosofo della chiacchiera filosofica, che ha prodotto altra infinita chiacchiera pseudofilosofica.
L’altro un giurista, niente affatto del Reich, come recita la vulgata democratica, alternativo a un altro gigante come Kelsen, e per di più e meglio un potente teorico della politica moderna, di cui nessuno, tanto meno noi, può fare a meno.
Il nemico principale di Schmitt non era Marx e il marxismo, ma tutta la dominante tradizione liberale, lo storicismo progressista, erede dell’età dei Lumi, la pappa del cuore dell’umanismo e del cosmopolitismo. E’ il Machiavelli del Novecento, al seguito di Hobbes e di Weber, e ammiratore di Lenin. A me è servito, e l’ho usato spregiudicatamente, per ritrovare non tanto l’autonomia, quanto il primato del politico, perduto nell’età delle spoliticizzazioni. Il criterio del politico amico-nemico, che fa venire i brividi alle anime belle, è il criterio del sociale realizzato nell’antagonismo della lotta di classe.
Come ben sai, ho frequentato molto il pensiero grande-conservatore, a cui non faceva certo difetto la teoria, ma perché aveva un segno antiborghese, certo da un punto di vista aristocratico. Ma cosa è stata la classe operaia, come l’abbiamo letta noi, se non una aristocrazia di popolo, al tempo stesso antiborghese e antiplebea.
Queste sono le prime riflessioni che traggo dalla lettura de La teoria nel deserto, bel titolo, bello perché dice il vero.
(Mario Tronti, 08.09.2020)
Mario Tronti, di cui sono amico da decenni per il senso di appartenenza dovuto alla militanza comunista e all’impegno nel lavoro teorico, conosce perfettamente il mio modo d’essere nella ricerca e nella elaborazione concettuale. Sono stato il primo a scrivere pagine teoriche in senso stretto sul problema dell’autonomia del politico, usualmente trattato alla stregua di una questione giornalistica da parte di soggetti assai distanti dalla teoricità.
Sa perfettamente, Tronti, il mio impegno nello studio di Marx e nella ricerca nel campo avverso, cioè essenzialmente nell’opera di Martin Heidegger. Si tratta di campi a proposito dei quali è stato ed è troppo facile vantare studi e conoscenze.
Eppure la filosofia è lotta di classe nella teoria, e mi pare certo che non si capirebbe nulla di Martin Heidegger, ma neanche di Carl Schmitt, se non si tenesse presente il panico cerebrale che aveva investito i loro cervelli dal 7 novembre 1917. A mio modo di vedere, per fare un modesto esempio, quando Heidegger all’uscita di Sein und Zeit (1927) allude allo “sterminato inverno” in cui l’umanità era entrata, parlava per metafora ma neanche troppo. Perché si trattava del freddo delle terre in cui Lenin era riuscito a spezzare il pianeta delle classi dominanti, conquistando appunto il Palazzo d’Inverno.
La filosofia occidentale non ha fatto altro che cercare di spostare il terreno dopo che, con la tesi centrale del Manifesto del 1848, Marx aveva conquistato lo spazio della lotta di classe. Perciò, semplificando, a mio modo di vedere il ceto intellettuale occidentale aveva scelto di schierarsi con il Klassenkampf quale forma di approdo dal tramonto dell’Europa. Questioni complesse l’indagine sulle quali richiede occhi disincantati e conoscenza del nemico.
Il mio lavoro è centrato sul problema della messa in forma delle procedure del disfacimento, dal momento che la storia umana è fondata nella coppia vincere/perdere. Il pensiero ha il compito di mettere il nome alle cose, incluso lo spirito di disfatta con il quale la sinistra europea ha dichiarato da decenni il rompete le righe e la dissoluzione dei suoi eserciti.
Confrontarsi teoricamente con Mario Tronti è un dovere da cui chi lavora nella fatica del concetto non è mai dispensato, perché si tratta dell’autore che primo tra tutti ha portato la presunta complessità capitalistica alla semplificazione assoluta: le chiacchiere dei sociologi stanno a zero di fronte alla semplicità radicale della coppia oppositiva di operai e capitale. Da questa coppia antagonistica, non dal cicaleccio padovano o pariolino, ha da sempre preso le mosse il mio lavoro teorico.
(Antonio Peduzzi)
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