Scene di pianto, volti atterriti, momenti di lutto, disagi esistenziali tornano oggi alla memoria: sono passati ben quarant’anni dal terremoto, generalmente conosciuto come dell’Irpinia, che colpì in maniera devastante il nostro territorio e segnò per sempre la vita delle persone.
Quest’anno sono tanti gli appuntamenti per ricordare e rilevare le voci dei protagonisti e di esperti di vari ambiti disciplinari, che intendono affidare alla loro memoria il senso di una tragedia gestita male dagli organismi dello Stato. Una vicenda che è diventata fenomeno sociale, che ha caratterizzato le coscienze, i modi di essere, dopo che i fatti del post-terremoto si sono susseguiti ed hanno evidenziato errori enormi e colpe accertate.
In questo scritto, per parlare di questo evento, faccio riferimento ad un libro da poco pubblicato: “Il terremoto dell’Irpinia. Cronaca, storia e memoria dell’evento più catastrofico dell’Italia repubblicana”, di Toni Ricciardi, Generoso Picone, Luigi Fiorentino, Edizione Donzelli.
Il terremoto (magnitudo 6,9 dell’attuale scala Richter) si abbatté su una zona già segnata ed abbandonata da secoli al proprio destino, ingannata dalle promesse ed ora falcidiata da morte e sventura. Piombò sulla popolazione alle 19:35 di domenica 23 novembre 1980. Una forte scossa di un minuto e mezzo a circa trenta chilometri di profondità colpì un’area di ben 17.000 chilometri quadrati, tra le province di Salerno, Avellino e Potenza. I paesi più duramente danneggiati furono: Castelnuovo di Conza, Conza della Campania, Laviano, Lioni, Sant’Angelo dei Lombardi, Senerchia, Calabritto, e poi via via tanti altri che subirono danni e perdite di vite umane. I dati finali parlano di 679 comuni interessati, una popolazione di circa 6 milioni di abitanti, non solo delle province rilevate ma anche di quelle di Benevento, Caserta, Matera, Napoli, Foggia.
L’entità del dramma all’inizio non fu evidente: l’interruzione di qualsiasi via di comunicazione e di collegamenti non consentì di cogliere la vastità della tragedia. La parola d’ordine fu di fare presto, per cercare di salvare le persone che si trovavano sotto le macerie. Si parlò all’inizio di diecimila morti, poi la cifra fu ridimensionata, anche se fu certamente notevole: circa 3.000 vittime, 9.000 feriti, 300.000 senza tetto.
Con la legge 128 del 7 aprile 1989 fu istituita una Commissione parlamentare d’Inchiesta sull’attuazione degli interventi per la ricostruzione dei territori colpiti; fu eletto presidente della stessa Oscar Luigi Scalfaro, il futuro presidente della Repubblica. La relazione, presentata in Parlamento il 5 febbraio 1991, stanziò cifre ingenti: oltre 50.000 miliardi di lire, 26 miliardi degli attuali euro, per ricostruire edilizia pubblica e privata, infrastrutture e stabilimenti produttivi.
L’intento era di rilanciare l’intero territorio. Ma quel fiume di danaro non arrivò se non in maniera minima ai colpiti, forse non più del 20% servì per gli scopi indicati: le autorità giudiziarie fecero un’inchiesta (Irpiniagate), che negli anni individuò finanziamenti illeciti, sprechi, tangenti e malaffare, di cui beneficiarono in tanti tranne la popolazione, che aveva subito perdite materiali e immateriali ed aveva visto la scomparsa di intere comunità con le loro abitudini ed esempi di vita.
Il terremoto dell’Irpinia fu l’evento più catastrofico della storia repubblicana. Oggi il libro: “Il terremoto dell’Irpinia … ”, ripercorre la storia, basandosi su un accurato lavoro di ricerca sulle fonti d’archivio, ma anche sulla memoria orale e sull’immaginario legato a quell’evento. Quel terremoto segnò un punto di svolta sia in tema di gestione delle emergenze territoriali che nel perfezionamento delle norme in materia di ricostruzione dei territori altamente sismici.
Ad ogni modo, quell’evento ha rappresentato l’occasione per attivare una narrazione che ha visto nei decenni il riproporsi continuo della questione meridionale. Improvvisamente, il Mezzogiorno aveva avuto la possibilità di disporre di un eccesso di risorse, che tuttavia si tramutò in uno degli sprechi più ingenti del secondo dopoguerra. I finanziamenti interessarono zone molto meno colpite: a Napoli ci fu un’accelerazione degli affari della camorra, che gestì gli appalti attraverso il sistema delle tangenti oppure si occupò direttamente di realizzare imprese per la ricostruzione. Non ci fu un post-terremoto che potesse risollevare le sorti di quelle terre, ma solo una strada per poter attingere e sperperare le risorse pubbliche e fare arricchire qualsiasi tipo di consorterie.
Gli autori del libro affrontano la lettura del terremoto attraverso un filo narrativo che si concentra sui due elementi principali che caratterizzano questi luoghi: i terremoti e l’emigrazione; poi si chiedono perché manchi ancora una memoria condivisa dell’evento. Fatto sta che quel fiume di danaro non fece compiere un passo in avanti verso la modernità: lo sviluppo non si è realizzato, non c’è stata l’industrializzazione del territorio ma solo accaparramento di soldi da parte del malaffare. L’unica condizione è stata una forte disoccupazione e la conseguente emigrazione che ha sensibilmente ridotto la popolazione dell’intera area, causando, ancora una volta, una distanza dagli altri italiani e uno sconsolato confinamento in una realtà che può solo prepararsi ad attuare le forme più drammatiche di abbandono.
Una possibile diversa chiave di lettura è: se pure c’è stato tanto spreco, la narrazione non può soffermarsi solo su questo. Molte opere sono state un disprezzo verso lo spirito dei luoghi, ma non tutto deve andare buttato. Occorre attuare politiche che consentano uno sviluppo diffuso e concentrato su settori legati all’industria avanzata, all’agricoltura di qualità e al turismo, rafforzando la rete dei servizi e delle strutture pubbliche e formando una nuova classe dirigente. Questo è l’auspicio. Rappresenta comunque la speranza che il divario con gli altri territori possa essere avviato verso un lento ma graduale superamento, perché esiste ancora una questione meridionale, come tutti gli indicatori socio-economici continuano a rilevare. E come è nella percezione delle genti del sud, che si ritengono ancora colpite da un drammatico destino, come quello che accadde quaranta anni fa, ancora impresso in maniera forte e dolorosa nelle loro menti.
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