“L’identitario «duro», quello che stringe la tenaglia, ascolta solo quelli che parlano come lui, pensano come lui, sta chiuso nella sua «foresta» e, salvo miracoli squisitamente individuali, difficilmente sarebbe disponibile a uscirne per cambiare idea”. (1)
Mi sono trovato a fare i conti spesso con la questione identitaria, a partire dalla metà degli anni novanta, quando nelle mie ricerche ho trattato il termine “cilentanità”, una parola/concetto con cui ci si riferisce a modi di essere, di comportamento, consolidati nell’evoluzione storica, nel rapporto tra passato e presente, nell’affermarsi delle tradizioni di un territorio. Con i sovranismi e le chiusure per salvaguardarsi dalla contaminazione con l’altro, lo straniero, ecco che la parola “identità” è diventata di grande attualità, spesso trattata in accezione negativa, come conservazione dello status quo, insensibile alle contaminazioni ed all’avvento del nuovo. Se l’evoluzione odierna del termine è intesa come tenaglia, salvaguardia della foresta, ecco che occorre continuare a confrontarsi e a riflettere, come ha fatto Maurizio Bettini in un recente volume, che ha un titolo veramente bello: “Hai sbagliato foresta”, riflettendo sul concetto di identità, variamente coniugato, avendo come riferimento essenziale il rapporto antitetico sovranismi/immigrazione, e ponendo in rilievo identitas contrapposta ad alteritas. La tesi principale è che le persone diffidano del cambiamento ed affermano che il mondo deve rimanere uguale a quello che conosciamo. Qui entrano in gioco le “radici”, di cui lo stesso autore aveva argomentato nei volumi: “Contro le radici” e “Radici. Tradizione, identità, memoria”, una sorta di fondamento per rivendicare un’identità forte, la “purezza”, contrapposta ad altro, l’identità come mito, consapevoli che le stesse tradizioni siano trasmesse dalla memoria in maniera meccanica da una generazione all’altra. (2)
Maurizio Bettini, ricostruendo paradigmi culturali a partire dalla classicità, attraverso il lavoro del Centro “Antropologia e mondo antico” e la collana “Mythologica”, da lui diretti, tratta queste tematiche da tempo. Il suo approccio ai sovranismi e alle chiusure identitarie riguarda l’idea che la cultura di un gruppo sia totalmente e assolutamente una creazione e una proprietà di quel gruppo e che ciascuna delle culture affondi le sue radici esclusivamente nella tradizione e quindi nel passato. Afferma che nessuno ha mai visto la propria tradizione, né la propria identità o la propria cultura, ma tutti abbiamo visto delle “radici”. Utilizzando la metafora delle radici evoca una serie di elementi, che finiscono per costituire la base di ideologie esclusiviste. Esiste però la debolezza di quel concetto perché l’immagine delle radici è che la tradizione necessita di essere tenuta viva di generazione in generazione, subendo anche delle modifiche, dovute ai cambiamenti storici e sociali e alle scelte che gli individui possono fare. Bettini, riferendosi alle radici, ci mette in guardia dal fatto che le retoriche, che spesso legano la cultura alla tradizione, se non addirittura la fanno coincidere, sono un tipico esempio di manipolazione del passato, il quale viene sfrondato di tutto ciò che viene da fuori, di tutto ciò che nasce dall’incontro con l’altro, per restituirne un’immagine in cui ogni cosa è frutto della nostra tradizione. Qui l’intuizione è di sostituire la metafora delle radici con quella del fiume. L’immagine del “tutto scorre” è la vera identità, in divenire, della società contemporanea, che porta la mescolanza e l’intorbidamento. (3)
Ecco dunque recuperato il senso di un’identità che non può mai essere statica e confinata alla conservazione dell’esistente. L’identità come cambiamento è esplicitata nel volume: “Hai sbagliato foresta”, in cui rilevo l’importanza di digredire per concetti antitetici che permettono di trattare molte questioni essenziali.
La prima dualità è legata a identitas/alteritas, con riferimento alle culture che non sono le nostre, non rappresentano il noi ma il loro. Parliamo di coloro che sbagliano “foresta”. Proseguendo per opposizioni: se identità “A” e alterità “non A” si mescolano, avremo un’alterazione della purezza. L’altra dualità è purezza/impurità, in cui l’identità deve restare pura, perché l’abbraccio con l’alterità produce la sua alterazione. Qui giungiamo a qualcosa di importante: identità è sacralità, purus, puritas, che rimandano all’ambito religioso, dunque ad un carattere essenzialmente rituale. Il suo contrario è polluere (contaminare), che è poi profanare, insozzare, ma anche inquinare (4) Affrontando la questione del sacro, Bettini produce questa definizione: “Intendiamo con «sacra» un’entità (…) che è considerata superiore al normale flusso dell’esperienza umana e come tale viene da esso tenuta accuratamente distinta e separata”. (5)
Identità, contrapposta ad alterità, è dunque separata. Se i due termini si mescolano, l’alterità è da intendere come “adultera”, alterazione, adulterizzare (inquinare); per adulterium i Romani, che parlavano di parola composta da ad e alter, indicavano l’atto compiuto da una donna che si unisce a un altro, diverso dal marito. Che è poi anche impurità. (6) Ed allora, identità è sempre opposta ad alterità, purezza ad impurità, e così via. Il quesito è: si possono osservare i fenomeni senza relazione, cioè l’identità senza alterità? Se “A” è diverso da “B”, se non c’è “B” non ha senso nemmeno “A”; se non c’è diversità non c’è neppure identità. O meglio: l’identità si sviluppa se ci sono altre identità con cui entrare in relazione. (7)
Nel volume c’è un esempio calzante sull’immigrazione. Essa genera ovviamente difficoltà, legate a convivenza, integrazione, lingua, usi, costumi. Dice Bettini che l’immigrazione è necessaria per lo sviluppo culturale, perché le società si sono fondate sulle mescolanze, e tutto ciò si è determinato quando hai sbagliato foresta. (8) L’“identitario puro”cerca di categorizzare l’altro attribuendo etichette, e dunque per identificarsi crea “identità di contrasto”, attraverso stereotipi e pregiudizi. E lo fa per contrapporre a ciò in cui si riconosce. Ma l’atto di categorizzare gli altri implica lo stabilire una gerarchia ponendo gli altri in una condizione di inferiorità. (9)
Altro esempio. Quando specifico che un signore è nero, non vedo altre sue caratteristiche, ma solo la categoria in cui l’ho collocato. Di conseguenza, “l’identità assomiglia a una lente che impedisce di guardare”, ma offre l’illusione di vedere il mondo che ci circonda. Il riferimento è al Mito platonico della Caverna: non si vede la realtà complessa, ma solo le cose che gli stereotipi identitari suggeriscono. Queste persone non hanno cultura, nel senso di volontà di conoscere e uscire dai confini della propria esperienza per “esplorare i territori intellettuali che stanno al di là”. Ed infatti, nella vita si ha a che fare con persone simili ma anche diverse da noi. (10)
L’identitarismo è una prigione che impedisce di vedere, che fa cogliere solo la sua foresta e il confine, inteso come frontiera, anche se non è “muro che vieta il passaggio, ma una soglia che invita al passaggio”. Qui la citazione di riferimento è Marc Augé. Proseguendo: c’è cammino, passaggio, che deriva dal ponte latino, pons-pontis. La conclusione è che l’identità pura appartiene più a forma retoriche, astrazioni, fantasmi dell’immaginario che entrano a far parte della conversazione culturale. (11)
La presa di posizione è netta: occorre mettere la giusta distanza tra identità e religione, alimentazione, dialetto, per impedire che la “piroga” si rovesci, secondo l’idea di Claude Lévi-Strauss. Sulla piroga i due viaggiatori svolgono funzioni complementari: uno spinge e l’altro dirige, e così mantengono la giusta distanza, come accade tra crudo e cotto, fuoco e vivanda, sole e luna. (12)
Bettini entra nello specifico di immigrati, rom e altre etnie, che sono “non noi” (altri, diversi, non identici), che producono il “panico identitario”, da cui il riferimento classico è al dio Pan, che scatenava terrori infondati e irrefrenabili. Il mito degli Argonauti che sbarcano a Cizico: all’inizio ci sono amici che si relazionano; poi gli uni aggrediscono gli altri, attraverso lotte insensate, dopo essere tutti caduti nel delirio del dio. Pan ha il potere di togliere il discernimento, che priva della capacità intellettuale e lascia le persone “preda di visioni e turbamenti”. Quando ci rapportiamo agli immigrati, il nostro sguardo è accecato dal dio Pan. (13)
In una parte consistente del libro, Bettini si riferisce al “tatuaggio” come strumento di identità, segno corporale e veicolo principe di identificazione, che rende le persone diverse nello sguardo dell’altro e in quella di se stesso quando si guarda allo specchio. È un’autobiografia per immagini e narrazione dei momenti significativi della propria esistenza. Si tratta di tracciare sul corpo segni identitari e indelebili che si pretendono immutabili nel tempo, senza possibilità di modifiche. Così si pensa che la stessa identità sia senza tempo e senza cambiamento, al contrario è destinata o al mutamento o all’oblio. Il tatuaggio è il confine, la separazione tra “noi” e “loro”, quando identifica l’individuo e al tempo stesso lo separa dall’ambiente che lo circonda. Identificare e separare, sono facce della stessa medaglia, anche se in opposizione. Di fronte ad un mondo che si globalizza e si mescola, il tatuaggio intende erigere una barriera, una protezione sociale. (14)
A questo punto, il concetto di “disordine” è essenziale per raggiungere un nuovo ordine, permettendo la nascita del nuovo: bisogna passare per il disordine per produrre combinazioni inaspettate e migliori, attraverso uno sforzo cognitivo per accettare positivamente la presenza degli altri. (15)
L’Italia è un Paese civile e democratico nel quale il rapporto con l’altro va regolato dalle leggi e dalle regole antiche di umanità che stanno alla base della nostra cultura, conclude Bettini. Con quest’ultimo lavoro ha fatto chiarezza su un’identità che è mutamento, un approccio scaturito da dimostrazioni di argomentazioni concettuali, con termini oppositivi e antitetici, che servono molto bene a rilevare l’inconsistenza di alcune prese di posizione rispetto alle questioni di rigidità che non avrebbero molto senso nell’ambito di società in evoluzione, molto diversificate, in una parola: complesse.
Note:
- M. Bettini, “Hai sbagliato foresta. Il furore dell’identità”, Il Mulino, 2020, 158.
- M. Bettini, “Contro le radici”, Il Mulino 2012; M. Bettini, “Radici. Tradizione, identità, memoria”, Il Mulino 2016.
- M. Bettini, “Radici. Tradizione, identità, memoria”, cit.
- M. Bettini, “Hai sbagliato foresta”, cit., 30-31.
- Ivi, 161.
- Ivi, 20-21.
- Ivi, 52.
- Ivi, 34.
- Ivi, 57.
- Ivi, 58-60.
- Ivi, 64.
- Ivi, 73-74.
- Ivi, 112.
- Ivi, 144-148.
- Ivi, 154.
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