Il Cilento è un’area che si è consolidata, attraverso il corso dei secoli, della sua storia e della sua cultura, grazie ad una conformazione geomorfologica particolare, che non ha favorito lo sviluppo di centri popolosi attorno a cui si potessero aggregare attività, organizzazioni di potere e gestione di risorse. Di conseguenza, in una zona a prevalente attitudine agro-silvo-pastorale, con borghi piccoli che si aggregavano attorno ad una chiesa e un palazzo signorile, si è prodotta una profonda divisione socio-economica tra la popolazione che lavorava, con grande sacrificio, e i pochi eletti che gestivano il potere.
Tra questi ultimi c’erano i nobili, in seguito coloro che avevano possedimenti, i discendenti di quelli un tempo titolati e che, con il susseguirsi delle generazioni, conservavano appezzamenti di terreno pur non potendo vantare superiorità di nascita, anche se, in molti casi, avevano un certo livello di istruzione avendo studiato in città. Questi ultimi venivano ossequiati con il don, e magari chiamati non ricchi e nobili, ma ricchini, utilizzando un termine dispregiativo per rilevare la loro condizione acquisita, ma soprattutto per mettere in luce il senso di sfruttamento che la popolazione aveva avvertito in conseguenza del loro potere. Non tutti hanno raccontato l’oppressione subita, alcuni per paura, altri perché hanno usufruito di alcuni vantaggi nel rapporto con il potente di turno, o almeno hanno aspirato a diventare un potente, un ricchino. Ciò è capitato ai fattori oppure a quegli uomini che si erano affrancati dalla condizione di sfruttati e ricoprivano nella comunità un posto di rilievo socio-economico.
Con questo intervento intendo proprio affrontare, attraverso le ricerche compiute nel territorio cilentano, l’importanza di questo termine/categoria, che ho riscontrato nelle interviste ai protagonisti della vita quotidiana.
Primo: l’esercizio del potere
Le condizioni erano dettate da colui che deteneva il potere ed esercitava un rilevante ruolo sociale. La storia di Vincenzo Saturno è emblematica in tal senso: “Il mio bisnonno alla fine dell’ottocento tenìa ‘na carcàra re calce. Andò dal nobile: – Neh ron Peppì, tengo la calce … si ve serve… – Buonaventù, a me la calce nun me serve … però portammila, che vale chiù n’àino che nu vojie. Voleva dire: – Sei tu che me la vuoi vendere, ed allora te la pago quanto voglio io! Quando è andato a prendere i soldi: – Neh ron Peppì, state facenno troppo nu tira tira! – E’ pecché faccio u tira tira che mi chiamo ron Peppino! Comandavano loro e basta. Ed imponevano il loro prezzo”. (1)
Il detto che si tramandava era: “Non vi voglio far morire di fame, facìte cocche cusarella”, quasi a voler sottolineare il favore fatto a coloro che li servivano e riverivano, a rimarcare chi esercitava realmente il controllo del territorio e ne segnava i destini.
Tra i poteri esercitati, parliamo però di epoche molto lontane ma che ancora pervadono l’immaginario collettivo, lo ius primae noctis era quello che faceva imbestialire la popolazione che tuttavia non poteva ribellarsi. Il barone, che imponeva alle spose di giacere prima con lui e solo dopo con il marito, in alcuni casi provocava forti ed esasperate reazioni.
“Nu giovane recette (disse)a’ muglière: – Nun te preoccupà ca stasera vado io! Allora se vestètte ra sposa e jette addù barone. Quanno u barone vulìa pussère la sposa, lu giovanevestito da donna lu pigliàvo e ‘u turceniàvo (lo uccise sdegnato)”. (2)
Di seguito, una storia di prepotenze subite.
“‘Na famiglia tenìa ‘na figlia femmena che nun lavorava. Stu signore ‘a chiamavo a casa sua e le facette u servizio. Chesta che era ingenua u recette a’ mamma … e u patre se mettette a aspettà u signore. – Addà assé (Dovrà uscire)!, e aspettava. Se mettette poi sotto ‘na fico e u sparào appena se affacciào a’ fenestra … e poi murette pure iddo (morì pure lui) re paura. Ma la cosa continuò. ‘A mamma re sta figlia femmena pensavache ‘a famiglia re chiro signore se putìa vendicà e tenìa paura p’u figlio. E pe’ tanto tiempo nun u facette assé (non lo fece uscire) ra casa. Allora s’accerìa pe’ dieci lire su commissione.
Le rive i soldi e recìvi: – Accìreme a chiro (uccidimi quello)!”. (3)
Colpisce il termine “ingenuità”. Si vuole sostenere che quando il torto era stato raccontato, l’uomo doveva difendere l’onore della famiglia, anche se il prepotente era un nobile. Ed allora, forse era meglio nascondere, negare l’accaduto.
Secondo: il barone
Nel territorio spesso si parlava del barone con rispetto, ma anche consci del dominio da lui esercitato.
Di seguito, è riportato il profilo del barone di Laurito, don Federico Speranza.
“Il barone di Laurito era don Federico Speranza. Del padre nessuno ricorda niente in paese, mentre il fratello si chiamava don Onofrio e la sorella Esmeralda. Don Federico seguiva i suoi affari, era avvocato e se vedeva un povero gli dava qualcosa. Quattro o cinque frantoi lavoravano quasi interamente per lui, infatti le sue terre facevano cinquanta tomoli di olive. Aveva anche un ricco castagneto. Stava bene il barone e disponeva di un territorio grandissimo che don Federico ha gestito per oltre trent’anni. La moglie si chiamava Lara, era di Genova ma non riuscì a vivere accanto a lui e lo lasciò. Il padre della moglie era un comunista: veniva in visita alla figlia ma non andava d’accordo col barone. Lara conosceva nove lingue e faceva l’interprete: quando lo lasciò lui continuò a vivere con la sorella e la cameriera. Negli ultimi istanti di vita cercò la moglie: – Chiama mia moglie!, disse il barone alla cameriera. Ma la serva non lo fece. La moglie non ha avuto niente in eredità e il barone fece testamento in favore della sorella. Negli anni ottanta del novecento la proprietà non fu più degli Speranza perché la donna regalò tutto alla Curia. La sorella era più giovane di don Federico e la serva ha ricevuto in eredità una casa, un pezzo di terra, un castagneto. Il massaro era della zona, un uomo fidato, e insieme a lui altre due o tre persone erano a servizio del barone. Poi c’erano i coloni che lavoravano le terre e si occupavano del raccolto. Fino al 1960 ha gestito don Federico, u barone: chi non stava bene emigrava e chi stava meglio stava sotto il barone. Ad Alfano teneva un altro palazzo che poi è stato venduto. Pare che don Federico fosse un bell’uomo, molti lo chiamavano ron Federico, quelli più intimi. Gli altri dicevano: – Buongiorno barone!, in senso di rispetto. Partecipava alla vita pubblica, donava soldi per la festa di San Filippo, partecipava alle elezioni votando la persona più degna. Chiacchierava con la gente. Il sindaco gli chiedeva dei consigli che lui ponderava e poi dava. Era quella la vita di un tempo”. (4)
Terzo: nobili e condizioni di vita
A Capizzo, don Alfonso Morra muore il 9 luglio 2001. Faceva parte di una famiglia importante che aveva molte proprietà: il padre don Vito ancora lo ricordano, ma soprattutto colui che ha gestito il paese ed ha vissuto tutto il novecento.
Incontro un vecchietto, che si getta in mezzo alla strada: “E’ morto don Alfonso, io devo andare ai funerali! – Ma chi è don Alfonso? – Ma come, non sapìte chi è? Don Alfonso teneva tutte sti terre. E pensate che nge rìa (ci dava) ‘a metà”. Era invece la quarta parte, come facevano tutte le famiglie che avevano proprietà: i contadini che coltivavano quelle terre avevano solo un quarto dei raccolti.
Quelli che compravano erano i Morra e i Russo, a Capizzo. Il padre di Federico Russo ha avuto tredici figli e ha poi dovuto dividere le proprietà. E le cose sono cambiate. I pastori venivano da Piaggine e pernottavano sulle loro terre. Chi raccoglieva olive nel dopoguerra riceveva mezzo litro di olio a tomolo. Una donna guadagnava un litro al giorno: poteva raccogliere circa due tomoli di olive. Quel litro d’olio occorreva per cucinare e per sfamare la famiglia numerosa. Il rapporto con il contadino era buono: gli accordi erano verbali, le regole erano quelle. Tutti davano un quarto al contadino. I contadini andavano dalle famiglie più facoltose perché avevano bisogno di lavorare, ma anche i galantuomini lavoravano. Un cognato della famiglia Russo aveva i buoi, arava i campi e scambiava pure le giornate con la gente. (5)
Federico Russo racconta che Don Alfonso Morra era un galantuomo, aveva tante terre. Ma anche la madre di sua suocera era una Pasca, una discendente di baroni. Il suocero quindi aspirò ad una donna di alto rango: del resto lui aveva tante proprietà. Tra i galantuomini e i contadini la vita era uguale, a parte una ricchezza maggiore. C’erano tuttavia delle differenze sociali: se uno apparteneva ad una famiglia benestante cercava di mantenere un certo contegno e decoro. Maria Russo racconta però di una sua cognata, fidanzata con un ragazzo di Gioi Cilento. Ad una festa, il fidanzato si tolse le scarpe per ballare scalzo. Lei rimase tanto male che lo lasciò, in quanto lo ritenne rozzo e poco adatto a lei. Questo fatto accadeva negli anni trenta del novecento. (6)
Le famiglie ricche determinavano la legge nei paesi e sfidavano le istituzioni in pubblico. Federico Russo narra di quando nella zona si cacciavano le pernici. Vennero i guardiacaccia per fare delle indagini, perché le specie erano protette, e cominciarono a chiedere chi cacciasse le pernici in paese. Questo fatto è accaduto verso la fine degli anni venti. Apparve in piazza il colonnello Cerruti: – Che c’è, che c’è? La popolazione disse ai guardiacaccia: – Chisto è u colonnello Cerruti!- Ah, colonnello. Abbiamo saputo che qui si ammazzano le pernici. Noi le stiamo proteggendo! – Ah. Ne ho mangiata una ieri sera. Che ottima carne! Volete sapere chi me l’ha portata? L’ho mangiata, ma non so chi me l’ha portata! (7)
Quarto: alcuni parlano bene dei nobili
Antonio Angelo Villano ha riportato un episodio dei suoi rapporti con i detentori del potere. Quando andava a trovare il padrone, il presidente della Corte d’Appello di Napoli, questi lo faceva sedere accanto a lui e gli chiedeva della campagna, il grano, la verdura. Dopo la guerra le cose cambiarono: lui era capo colono ed in una circostanza non si trovò con il figlio del padrone nell’apprezzamento del grano. Villano disse al fratello di mietere perché era tempo di farlo, perché poi sarebbe stato lui a trattare con il padrone. Il fratello voleva lasciare così il grano visto che il padrone non si fidava. Antonio Angelo affrontò il figlio del padrone e iniziò una disputa. Intervenne allora il vecchio: – Stai zitto tu!, rivolgendosi al figlio. E appoggiò le richieste del suo capo colono. (8)
In realtà, avevano piantato più grano e il padrone voleva un maggior raccolto. Il vecchio padrone, però, preferì avere una quota inferiore evitando il malcontento dei suoi contadini: con questa decisione legittimò il suo capo colono, con cui aveva un buon rapporto personale, agli occhi degli altri contadini.
Riporto la storia di Immacolata Lancuba: “So’ stata cu li signuri: aggio fatto ‘a cameriera. – Vuò ‘Mmaculà, i signuri jettano (gettano) li cose pe’ terra. Nun te piglià mai niente, figlia mia!, diceva mia madre. Mettevano alla prova i loro servitori, tentandoli con soldi e gioielli, per vedere se erano di fiducia. E lu signore, roppo che era spusata, se pigliào fìgliema perché era figlia di Immacolata. – Come erano questi nobili? – Bravi! M’hana trattato sempe bene. – Il barone del luogo come si chiamava? – Nujie l’ama chiamato sempe barone”. (9)
Quinto: i ricchini
A Licusati le famiglie più importanti erano i Gallo, Crocco, Parlato, Ragucci, Del Duca. Tenevano in mano il paese. Dall’altra parte del centro storico ci sono i boschi. A fianco del paese vi era una collina ricca di querce e lecci. Al di sopra dei terreni di queste famiglie, vi sono le terre demaniali, il demanio di Camerota. Ad est vi è il territorio di Celle di Bulgheria. Oggi sono rimasti due o tre pastori. Queste famiglie hanno avuto potere fino ad una ventina di anni fa. La popolazione non raccoglie più le olive, preferisce utilizzare i contributi agricoli. L’emigrazione ha cambiato il paese, ma i soldi sono stati investiti tutti nelle costruzioni. (10)
Ci sono ancora i coloni, qualche fattore. Curano gli interessi, anche se ora gli versano i contributi. I contadini non sono pagati più come una volta. Il fattore si occupa della terra, ma gli dà ben poco, guarda ai fatti suoi. Anticamente c’era un’Abbazia, dove è ora il cimitero. Poi vennero i pastori che si sposarono e si fermarono qui. Si chiamarono Accasati. Le quattro o cinque famiglie dimoravano lungo la via che da un antico frantoio va giù fino alla chiesa, dove c’è il palazzo Gallo. Lateralmente c’è uno strapiombo per difendersi dagli attacchi. Le case sono quelle dei galantuomini. Poi ci sono le stamberghe dei contadini. Le alture sono tutt’intorno al paese. Poi finisce il terreno baronale ed inizia quello demaniale. I coloni erano quelli che provenivano dall’Abbazia, mentre i nobili venivano da Camerota: erano i cadetti delle famiglie più importanti. (11)
Prima si poteva dire solo: “Buongiorno e signurìa!,buonasera e signurìa!”. Oggi le cose sono cambiate:“Ifigli ri signuri lavorano e mia figlia fa ‘a signora a casa! ‘Na vota, invece… mangiavano l’arancia e buttavano ‘a scorza p’a fenestra … e nujie n’a mangiavamo (la buccia dalla finestra … e noi la mangiavamo). U galantuomo tenìa ‘na casa grossa: chesta ri Marone tenìano chiù re quaranta stanze. I coloni erano tre o quattro; c’era nu massaro, nu garzone e cinque o sei servi.Chiamava u fattore: – Domani è festa, me servono tre àini, u furmaggio. Vajie addù massaro!(12)
E il fattore procurava tutto. Fino agli anni cinquanta, forse sessanta, è rimasto tutto così. Poi con l’emigrazione è cambiato tutto.
I Nicodemo erano molto potenti durante il fascismo, mentre i Marone in precedenza: questi ultimi erano persone di profonda cultura. La caratteristica che accomunava queste famiglie era rappresentata dagli interessi economici e dal prestigio sociale. Una massima di Giovanni Accetta di Monte San Giacomo è significativa sul fatto che le famiglie di potere difficilmente litigavano: “Cuorvi e cuorvi nun se cecano l’uocchi!”. (13)
Ad inizio secolo, c’erano pochi personaggi importanti in paese: il notaio, il prete, poche persone. Pietro Romano racconta l’importanza del notaio: “Allora litigavano pe’ ‘na proprietà, pe’ nu piezzo re terra. ‘A gente re prima nun capescìano (capivano)niente, nun sapìano legge e screve. ‘Na donna stìa murenno e donò tutto au nutaio e au prevate. I figli ra donna: – Bravi, v’avìte futtuto (avete preso) tutto chèro re mamma! Addù sta (Dov’è)la nostra eredità? Si iniziò ‘na causa, ma nun fernìa (finiva) mai. – Ce li vulìte rà sti soldi? – Ma chesta ha fatto rece messe … ha dunato ‘na casa…, disse il notaio, nun nge niente pe’ vujie! -. E accussì se pigliavano tutto loro. (14)
Si trasportava il legname in testa fino al palazzo del barone.
Anna Agresti: “Nun è come a mò … e i chiù picculi nun se feràvano (i più piccoli non ce la facevano). A barunessa antica cumandava tutto u paese. Apparteneva alla famiglia Del Giudice. Il racconto seguente parla di una piccola donna, presumibilmente una bambina, che si pone una veste simile a quella della baronessa, che reagisce stizzita. ‘Na femmena piccula se mettette nu sino. Era ‘na mezza criatura. Edda lu jiette a sceppà stu sino, perché nun putìa tène u sino come ‘a barunessa. Lu jiette a sceppà u sino a chèra criatura”. (Una piccola donna si mise un grembiule, era una piccola creatura. Lei glielo strappò perché non poteva avere una veste simile alla baronessa. Andò a strappare quel grembiule a quella creatura). Erano così potenti che il barone Del Giudice fermava il treno di notte con una lanterna. Fermava u treno addu vulìa isso (dove voleva lui). Poi, chiano chiano, u fattore se pigliàvo tutto”. (15)
La popolazione spesso rileva il crollo del potere: “Era tanto potente però dopo il fattore si prese tutti i suoi averi!”.
Questa la condizione che in alcuni paesi si è protratta fino agli ultimi decenni del novecento. Chi ha avuto la possibilità di diventare ricchino è stato tra i protagonisti di questa terra, gli altri hanno dovuto subire. Occorrerebbe osservare il potere attuale, forse non si utilizzerà più questa espressione, ma la ricchezza e i possedimenti ancora possono costituire un vantaggio per determinare i destini di un territorio.
Note:
- Vincenzo Saturno, Licusati, 23 giugno 2001. Questa come le altre interviste del 2001, riportate nello scritto, sono contenute nel volume: P. Martucci, “Le comunità cilentane del novecento”, Centro di Cultura e Studi Storici “Alburnus”, 2005.
- Rosaria Villano, Alfano, 28 maggio 2001.
- Anna Agresti, San Mango Cilento, 16 luglio 2001.
- Storia tratta da: P. Martucci, “Cilentanità”, Centro di Cultura e Studi Storici “Alburnus”, 2008, 123-127.
- P. Martucci, “Le comunità cilentane del novecento”, cit.
- Federico e Maria Russo, Capizzo, 9 luglio 2001.
- Ivi.
- Antonio Angelo Villano, Alfano, 28 maggio 2001.
- Immacolata Lancuba, Alfano, 28 maggio 2001.
- Domenico Abate, Licusati, 23 luglio 2001.
- P. Martucci, “Le comunità cilentane del novecento”, cit.
- Giovanni Accetta, Monte San Giacomo, 18 giugno 2001.
- Ivi.
- Pietro Romano, Monte San Giacomo, 18 giugno 2001.
- Anna Agresti, San Mango Cilento, 16 luglio 2001.
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