“Ad attrarre il pubblico più vasto, tra tutti gli eventi della storia dell’umanità non è stato un avvenimento politico particolare o la particolare celebrazione di qualche complessa conquista nel campo delle arti o delle scienze, ma una semplice partita di calcio”.
Molti osservatori da tempo studiano il calcio come un fenomeno sociale, analizzato secondo un approccio interdisciplinare, mettendo in relazione molti aspetti: in primis gli attori/giocatori; in secondo luogo il pubblico; infine, media e televisioni, che hanno coinvolto un’infinità di soggetti in tutto il mondo. Questi tre elementi hanno conferito ad esso un riscontro in termini di complessità e di condizioni che travalicano le parti coinvolte.
In questo intervento, cerco di analizzare la globalità dei fattori, partendo dagli elementi più caratteristici del calcio moderno.
Nell’ultimo anno molto è cambiato per via della pandemia che ha svuotato gli stadi ed ha conferito ad esso una differente valenza, rispetto all’idea di un luogo in cui si celebra un rito sempre uguale e ripetuto che permette di trasgredire i comportamenti della vita quotidiana, spesso “stravaganti e irrazionali, dove vivono le fantasie, le pulsioni, i sogni ad occhi aperti”.
Da quando Desmond Morris scrisse nel 1981: The Soccer Tribe, indagando dall’interno intensità emozionale, partecipazione, rappresentazione e condivisione dell’evento, per mettere in scena un teatro rituale, sono passati molti anni. Si è passati ad un professionismo esasperato, che tiene in conto gli introiti derivanti dai diritti televisivi, creando nei club calcistici organi istituzionali e manageriali che mettono al centro le questioni economico-finanziarie.
Se alcuni parlano di degenerazione del football, si continua a studiare il calcio attraverso quegli elementi che ne delineano la fenomenologia e lo collocano entro le logiche della società dello spettacolo.
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