Il prof. Vincenzo Aversano, già ordinario di Geografia presso l’Università di Salerno, che si è sempre distinto per essere uno studioso attento all’esplorazione di diversi orizzonti culturali, con al centro la dimensione etica e una visione critica e riflessiva per comprendere l’attualità e progettare una conoscenza alternativa, mi ha trasmesso una serie di saggi, che credo valga la pena pubblicare su questo sito.
Riporto alcuni volumi di Vincenzo Aversano: “Geographica salernitana. Letture cronospaziali di un territorio provinciale”, Elea Press, 1987; “L’abbazia di Cava. Itinerario geocartografico”, Avagliano, 1994; “Per una didattica continua della geografia”, Edisud, 1995; “Ricerca e didattica in geografia”, Elea press, 2001; “Lampe e truone aspettano ca stracqua…”, Kairòs, 2008; “Leggere carte geografiche di ieri e di oggi. Come e perché”, Gutenberg Edizioni, 2010; “Zuco ‘e ll ‘anema”, Aracne, 2010; “E così ti assicuro di me. Lettere di guerra e d’innocenza”, Arci Postiglione, 2018.Di seguito, pubblico un interessante lavoro su E.A. MARIO, pseudonimo di Giovanni Ermete Gaeta, autore di poesie e poemetti oltre che compositore di circa 2.000 canzoni. Cito solo alcune delle più celebri: “A Margellina”, 1905; “Santa Lucia luntana”, 1919, la più famosa del genere “canto degli emigranti”; “La Leggenda del Piave”, del 1919; “Tammurriata nera”, del 1944, dopo una serie di versioni a partire dal 1914.
E.A. Mario, di cui tratta in questo scritto, è da annoverare insieme a Salvatore Di Giacomo, Ernesto Murolo e Libero Bovio tra i massimi esponenti della canzone napoletana della prima metà del novecento.
Giovanni Ermete Gaeta è una personalità umana e poetica così variegata e complessa che, per rendergli totale onore, bisognerebbe definirlo “poeta anche della patria”. Il tema “patriottismo” è infatti uno dei tantissimi che egli ha affrontato e personificato nella sua sterminata produzione di poeta e canzoniere (sulla quale intendo focalizzare in questa sede la mia attenzione), un tema che ovviamente non andrebbe separato dagli altri e la cui trattazione comporterà inevitabilmente delle forzature, al solo scopo di restare aderenti all’obiettivo propostoci.
Eppure, da un altro punto di vista, si potrebbe sostenere che tutta la poesia eamariana sia intrisa di patriottismo in senso lato, cioè di un entusiasmo di base nel cantare col medesimo ardore, oltre il tema patriottico, temi lirico-amorosi, di paesaggio, di costume, satirici, drammatici e via dicendo. Si aggiunga la perenne avversione del nostro uomo-poeta all’esterofilia, sia nei contenuti (quando trattava di temi “italiani” o “napoletani”), sia nella forma e nell’uso della scrittura, che fu indifferentemente la lingua nazionale italiana o quella “nazionale” – napoletana. Preciso che quest’ultima non significava strettamente “partenopea” ma lingua del Regno di Napoli: sostengo da sempre che la civiltà napoletana (e quindi la sua lingua e la canzone in particolare) sia il risultato degli apporti da tutte le province del regno, che la capitale ha avuto l’enorme merito di fondere in un grandioso e inimitabile crogiuolo.
Come si vede, nonostante le apparenze, l’argomento da svolgere è tutt’altro che semplice, vuoi perché in generale il termine “patria” si presta a molteplici interpretazioni e strumentalizzazioni, vuoi perché il patriottismo di E.A. Mario va ricercato un po’ dappertutto nella sua scrittura letterario-musicale, sicché andrà precisato a quale patria, e impersonata da chi e da cosa, di volta in volta egli si riferisca …
Orbene, per cominciare a sviluppare il discorso, trovo utile avvalermi proprio di considerazioni fatte dal prof. Carmine Manzi in un convegno, da me organizzato a Coperchia quasi 15 anni fa, su “G. Ermete Gaeta, questo sconosciuto”, considerazioni che il professore volle amabilmente rendermi per iscritto negli Atti, stampati sempre a mia cura. Afferma dunque il Manzi, trovando in me piena condivisione, che G. Gaeta «fu contemporaneamente [attenzione a questo avverbio!] il poeta della Patria e il poeta di Napoli. Una figura complessa, massiccia, dalle cento sfaccettature: prima l’orgoglio del Piave e il suo nome legato a Santa Lucia luntana ma poi non preferiva più e non voleva essere ricordato soltanto per questo o per le canzoni delle gesta d’oltremare./ Diceva il Costagliola ch’egli è il Signor Tutto della canzone napoletana, ma Elvira Donnarumma e Gennaro Pasquariello affermano che non è nemmeno giusto né che egli vivesse alle spalle di un fiume né che alle sue spalle fosse l’Oceano. E.A.Mario voleva invece essere ricordato per la sua poesia agreste, quella che più lo collegava alle sue radici. L’amore per la terra, per la sua terra, riemerge in lui come un qualcosa di innato, d’istintivo, gli canta dentro, soprattutto l’amore per questa terra>> (p. 53) [il professore si riferiva alla Valle dell’Irno e al Sanseverinese].
Il Manzi dunque mi consente di sostenere che la grandezza di Mario è nell’aver compreso che la patria per così dire locale (Napoli, Pellezzano, il Sud) non confligge con quella nazionale, che possono cioè convivere tranquillamente in una persona due “scale geografiche” di patriottismo: un discorso attualissimo, tanto che oggi in Geografia economica e culturale si parla di “glocale” come via privilegiata allo sviluppo e, più in generale, si sostiene che in ogni cittadino (non suddito di una patria autoritaria..) può tranquillamente coesistere l’amore per la propria terra d’origine, per l’Italia, per l’Europa e per il mondo. Anzi, è proprio l’istituzione Stato che dovrà fare spazio (nel caso nostro) all’Europa e, in prospettiva, a un governo mondiale, mentre per converso non potrà opprimere le legittime patrie locali, alla cui salvaguardia e rappresentanza politica i costruttori risorgimentali dell’Italia ben pensavano, con un progetto assolutamente federale. Poi, come si sa (o si dovrebbe sapere), per una serie di motivi (la paura del brigantaggio nel ventennio postunitario, la corruzione delle amministrazioni locali, l’adozione sabauda del modello centralistico alla “francese”, l’ideologia del militarismo, sostenuto dalle forze economiche fabbricanti cannoni e arnesi da guerra), hanno ritardato questo progetto, che naturalmente dovrà attuarsi, diversamente da come vorrebbe la “Lega”, nel rispetto dello sviluppo equilibrato del paese e non a danno di questa o quella regione amministrativa e/o storico-culturale.
Ebbene, E.A.Mario a queste idee già c’era avveniristicamente arrivato! Varie e convergenti sono le prove a sostegno e si ha solo l’imbarazzo della scelta. Mi limito alle prove di natura letteraria: tanto per cominciare, nell’ultima parte di una sua raccolta poetica (“Vangelo”, e preciso subito che si tratta di un vangelo laico ma non molto diverso da quello cristiano) c’è una sezione intitolata Fraternità vernacola, con 21 traduzioni in napoletano (quasi tutti sonetti) di componimenti scritti nelle lingue regionali e subregionali o cittadine di tutta Italia: triestino, vicentino, veneziano, veronese, meneghino, romagnolo e bolognese, piemontese, genovese, pisano, fiorentino, spoletino, romanesco e fanese, leccese, siciliano e sassarese. La Signora Bruna, sua figlia, mi assicurava che il papà conosceva tutti quei dialetti, era un mostro di versatilità: e ove se ne volesse avere parziale conferma, basterebbe ascoltare la sua interpretazione vocale della canzone Madonnina blu, in lingua veneta, che peraltro è incisa in una cassetta allegata all’eccellente volume “E.A.Mario: leggenda e storia”, scritto da Bruna Catalano Gaeta nel 1989, per i tipi della Liguori di Napoli (un volume dal quale non si può prescindere per avviarsi alla comprensione del suo grande papà).
Ancora oggi Egli non cessa di stupirci. Trovo eccezionale che già negli anni Venti del secolo scorso un uomo simile sostenesse la moderna idea secondo la quale i dialetti sono manifestazioni linguistiche che, lungi dal dividere il popolo italiano, ne rinsaldano i vincoli nazionali: l’idea di un “federalismo vernacolo” dalla forte caratterizzazione evangelica-laicale. Chi si aspettava un E.A.Mario propugnatore, comunque, di una “patria qualunque”, e quindi “interventista” rispetto al primo conflitto mondiale, collaborazionista del fascismo dopo, resterà fortemente deluso. Tanto per essere precisi, Egli fu contro quella guerra e contro tutte le guerre, non ha mai voluto prendere la tessera del Fascio e, se pure ha talora collaborato col Ministero della Cultura del Ventennio e partecipato a manifestazioni dell’epoca (del resto, a parte poche eccezioni, mi si trovi uno che non collaborasse…), lo ha fatto sempre per amore di una Patria esistente oltre (e prima) dei governi pro-tempore, una Patria più profondamente e mazzinianamente, e quindi religiosamente identificata col Popolo italiano.
Scopriamo ancor di più le carte su cosa considerasse “Patria” G. Gaeta come uomo e come poeta. Egli non amava tanto, in quanto tale, l’apparato statale (militare, burocratico-amministrativo, politico), né la sola componente “ufficiale” delle manifestazioni patriottiche pubbliche, specie quando assumevano il carattere retorico delle trombonerie nazionalistiche. Non è che le disprezzasse, ovviamente, ma nel suo intimo preferiva a questo involucro esterno la sostanza del popolo e dei suoi sentimenti, il suo senso di appartenenza al destino comune della Nazione. Si può dire che amava più la Nazione che lo Stato. Perciò rifiutò la croce di guerra (“dite a Sua Maestà che tengo già tante croci nella mia vita”) e fu pedinato per anni dalla forza pubblica; perciò, al di sopra delle parti, aiutò anarchici durante il fascismo e fascisti perseguitati dopo il fascismo. Ecco il motivo per cui era sospettato dai governi, ecco perché urtava la suscettibilità delle autorità: egli badava alla sostanza, ai valori alti, al di là delle etichette. E, quando si trattava di criticare il popolo “basso”, quello ignorante che poco comprendeva.. (contro cui non era razzista, però), beh, lo criticava: anche nel dialetto della sua poesia, egli preferisce usare un tono più alto della parlata popolare (si legga ‘A Puisia Signora). Su questo ci sarebbe molto da dire, ma non è questa la sede più opportuna.
Per offrire altre dimostrazioni poetiche del suo amor di patria, vale la pena tornare al “Giovannino” dei vent’anni, già autodidatta zeppo di letture di ogni tipo (letterarie e storico politico-evenemenziali). Mentre a Genova fervono i preparativi per commemorare il centenario della nascita di Giuseppe Mazzini (1805-1905), nel 1902 di tasca sua si reca a Genova con una cinquantina di copie (stampate sempre di tasca sua) di una sua opera intitolata Canzone di Mazzini, un poemetto di 999 novenari suddiviso nei tre periodi-simbolo della biografia mazziniana (Marsiglia, 1830-34; Berna, 1834-49; Roma, 1849-72). Cediamo la parola alla figlia Bruna: <<era un’ode di poderoso volo, animata da un certo impeto carducciano. Al mattino, sotto una pioggia torrenziale, egli se ne andò a piedi a Staglieno [località dove sorge il Cimitero Monumentale di Genova],ad offrire il suo voto al grande Spirito, solo, schivo di cortei, di musiche, di bandiere, per un Apostolo missionario immolato per la fratellanza e la giustizia fra i popoli>> (p. 21). Ecco E.A.Mario per l’Europa e il Mondo…
E questo, dopo aver fatto omaggio dello stesso poemetto ai componenti la redazione de “Il Lavoro” di Genova, primo fra tutti il Direttore, Alessandro Sacheri, che gli aprì le porte del giornale e che diventerà suo intimo amico ed estimatore, tanto che poi la “A.” dello pseudonimo E.A. Mario, rifletterà appunto l’iniziale di Alessandro. Per la cronaca, a parte la “E.” (iniziale del suo secondo nome Ermete), il nome “Mario” è legato alla direttrice della rivista letteraria “Il Ventesimo” di Bergamo, una anarchica d’origine polacca, la quale si firmava con lo pseudonimo maschile (Mario Clarvy), e che ebbe una storia sentimentale col Nostro e ne accettò poesie e saggi critici: in riferimento a questo e al precedente episodio, interessa qui rimarcare, più che le vicende biografiche (l’occasione dell’impiego postale a Bergamo, che permise a “Giovannino” di visitare anche i luoghi di un altro grande del Risorgimento, Alessandro Manzoni), interessa – ripeto – la formazione ideologica mazziniano-anarcoide di E.A. Mario e il suo spirito ribelle, in nome dei grandi ideali dell’amor di patria, della lealtà, dell’onore, della sincerità, dell’anticonformismo, che non a caso volle incidere nel suo nome d’arte. Ciò è testimoniato anche dalla composizione, nel 1904, a soli 20 anni, di Sonetti rossi, 14 componimenti che celebrano episodi gloriosi del Risorgimento: le giornate di Brescia, di Milano e di Venezia, l’avventura di Pisacane, la Comune di Parigi, Garibaldi e i Mille, la difesa della repubblica romana. Non è alta poesia, ma è ricca di empito eroico in versi molto gonfi ed eruditi, sempre sullo stile carducciano.
In seguito, dopo i riconoscimenti ufficiali avuti come autore del Piave, il Nostro poeta – come un poco tutti di fronte a un “dato di fatto” – si sposta su una posizione filo-monarchica, in quanto riconosce nella storia della dinastia sabauda, a partire dal Conte Biancamano e fino a Vittorio Emanuele III, una caratura di eroismo effettivo: scrive dunque, in occasione della celebrazione del 25° anno di ascesa al trono dell’ultimo regnante, una raccolta di canti e poesie (I parentali sabaudi), con lo stesso entusiasmo di sempre, una caratteristica del suo temperamento. E’ l’epoca in cui (1924) chiama anche “Italia” la sua terza adorata figlia, facendo sì che sua moglie Adelina, incinta, tornasse dall’America, per partorire appunto in Italia.
Insomma, biografia umana e biografia poetica si intrecciano a ribadire il forte senso di appartenenza italiana di E.A.Mario. Ora, se i 21 sonetti di Fraternità vernacola, come abbiamo visto, sono già una bella lezione per Bossi e leghisti, questa lezione continuerà in una raccolta successiva a Vangelo, Cerase, del 1929, fatta tutta di sonetti, tra i quali uno intitolato “LL’Italia una” , che merita di essere citata per esteso, a beneficio di chi avesse ancora dei dubbi. Un sonetto dall’aria semplice e sbarazzina, piena di senso pratico (un’altra variazione delle sue corde poetiche..) più che di enunciazioni sacre:
L’Italia una
Ll’ammore ‘o faccio dint’’a patria mia:
‘stu core saglie e scenne p’’o Stivale,
e ‘o libbro d’’o ppassato è tale e quale
a ‘o libbro addò se studia ‘a geografia
Ce sta ‘o Piemonte, ce sta ‘a Lumbardia,
ce sta ‘a Sicilia, ll’Italia Centrale…
E nun ce manca Roma Capitale:
cerca, e ce truove ‘a breccia ‘e Porta Pia.
A Napule ll’ammore è na canzone
doce, gnorsì. Però me so’ mparato
ca è tramuntato ‘o Regno d’’e Burbone.
Napulitane cu Napulitane?
Gnorsì, gnorsì… Ma ‘o Regno s’’è allargato?
Ll’Italia è fatta? E i’ faccio ll’italiane!
Questa riconversione esterna, tuttavia, suggerita da una situazione storica che appariva irreversibile, non è mai stata del tutto accettata interiormente. I grandi ideali mazziniano-repubblicani sui quali si era formato fervono sempre in lui e provocano, a mio modesto avviso, un perenne conflitto esistenziale, ben riflesso nella sua produzione letteraria e musicale. C’è una continua oscillazione, nei suoi versi, tra il poeta popolare genuino e per forza di cose apostolo alla Mazzini, rivoluzionario alla Masaniello (cui pure ha dedicato versi), da una parte e, dall’altra, il poeta indotto dall’evoluzione della società industriale a diventare borghese, a firmare i suoi “pezzi” e farsi pagare il prodotto del suo ingegno (io penso, tuttavia, che sia stato il 75% la prima cosa e il 25% la seconda).
Ed ecco nascere opere a mezza strada tra “ufficialità” e “popolarità”, tra “intimismo” ed “epicità”. Ciò è vero anche rispetto a vere opere d’arte, come “La Leggenda del Piave” e “Santa Lucia Luntana”. Sarebbe troppo scontato, e anche comodo, soffermarmi a lungo su questi capolavori. Mi limiterò invece a pochi cenni, giacché voglio lasciarmi spazio per segnalare altre prove poetiche meno note, che ugualmente “trasudano” e talora “gridano” amor di patria. Beh, sul Piave si è detto tutto, perfino che fa il pari al Carmen saeculare di Orazio, perché, come quello segnò l’inizio dell’Impero romano, così questa canzone segna l’inizio di una nuova era di consapevolezza della nazione italiana (Andrisani, pp. 64-65). C’è del vero in questo giudizio. E difatti fu un inno che fece di E.A. Mario un Uomo simbolo della Italianità risvegliata contro lo straniero, testimone e interprete dell’epopea sociale e nazionale, purtroppo negli aspetti bellici, dei quali l’autore avrebbe fatto volentieri a meno. Tuttavia, già prima, nel 1915, di fronte alle provocazioni della stampa tedesca che, come ci ricorda Bruna, <<aveva beffeggiato l’esercito italiano con la frase: “Verranno a combattere contro la Germania e l’Austria i <<briganti delle Calabrie>>, i <<mafiosi>> della Sicilia e i <<posteggiatori>> di Napoli>> (p. 36), E.A. Mario si sente punto nell’orgoglio di napoletano-patriota e risponde con una canzone stampata nell’edizione Bideri della “Piedigrotta”, da lui curata, perché rappresentava e rimane la manifestazione più genuina dell’etnos napoletano: una canzone che, peraltro, predice la vittoria italiana…
Serenata all’Imperatore
Maestà, venimme a Vienna,
venimme cu chitarre e manduline,
pecché sunammo ‘a penna
pecché tenimme ‘e guappe concertine…
Tutt’’e pustiggiature
ca stanno pe’ Pusilleco e ‘ncittà,
cantante e prufessure,
cu suone e cante v’hann’’a fa scetà.
E ‘o riturnello fa:
<<Mio caro Imperatore,
primma ca muore, ‘a vide ‘a nuvità:
ll’Italia trase a Trieste
ce trase e hadda restà!>>
Della canzone più celebre sull’emigrazione, che canta la nostalgia per il borgo di S. Lucia, si può ugualmente dire che si tratta di una epopea meridionale eroica e patriottica sul versante dei movimenti demografici transoceanici, dove non si odono rombi di cannoni o crepitii di mitraglie, ma che comportò il silenzioso sacrificio di molti milioni di italiani, soprattutto meridionali, tra la fine dell’’800 e l’inizio della I Guerra Mondiale.
Non si dimentichi tuttavia che il nostro autore, su questa dolorosa problematica assolutamente patriottica, lo ribadisco, ha scritto fior fiore sia di canzoni (da Core furastiero a Cantano ll’emigrante, passando per Mamma sfortunata, nota pure come ‘A seggia elettrica) sia di versi: basterà citare i titoli delle 13 composizioni, talora musicate, all’interno della raccolta Vangelo, che sono una summa delle diverse sfaccettature psicologico-esistenziali dell’individuo e del sentire collettivo degli emigranti (vi leggo solo i titoli, perché già da sé eloquenti: Arrivederci…, Fore mare, Nustalgia, Tre fare, Dummeneca (a bordo), Tre classe, Canzona d’a terza classe, ‘A stella puverella, Mare straniero, Lettera ‘a ll’Estero, Cronaca ‘e buordo, ‘O testamiento, Dduie sturnelle).
Parimenti, sulla tematica del soldato in guerra e della sua martoriata affettività, come degli sconvolgenti effetti collettivi del conflitto, si potrebbe fare un elenco assai lungo, sia di canzoni che di poesie: Marcia ‘e notte, Le rose rosse (pacifista) e Soldato ignoto (attenzione: entrambe in italiano), Passa ‘a Bandiera, LL’Italia, Priggiuniero ‘e guerra (un poveretto che torna e trova la moglie risposata, perché lo dava per morto).
Perfino nel secondo dopoguerra E.A.Mario torna con grande successo sul tema, con un Rapsodia scenica sul soldato, in italiano, nella quale celebra il contributo dei meridionali alla Grande Guerra, il sangue versato che unisce tutto un popolo. E nello stesso periodo (1948), con minor successo, pubblica un poema in 162 sonetti in napoletano, dal titolo ‘O quarantotto, che narra con dovizia di dati e di riferimenti storici a fronte, i riflessi a Napoli e nel regno borbonico delle vicende politico-diplomatiche, belliche e rivoluzionarie europee (una sorta di ritorno alle prime prove letterarie mazzinianeggianti, una fatica immane, in cui si evidenziano le svariate letture dell’Autore). Ed ecco poi la testimonianza che, al di là delle bandiere, delle cerimonie tronfie e retoriche con banda e autorità, l’amore al popolo italiano e napoletano combattente è profondo: Surdato ca tuorne testimonia di una onestà intellettuale e di una sensibilità non comune verso gli sconfitti della II Guerra Mondiale, che al loro rientro vengono beffeggiati dalla gente (ecco un caso in cui E.A.Mario si dissocia anche dalla vox populi).
Suldato ca tuorne
Nisciuno t’aspettava ‘a stazione,
suldato ca tuorne, pecché…
Ll’Italia nun è cchiù ‘na nazione…
so’ triste sti juorne pe’ tte!
Ll’Italia nun è chella ‘e ll’ata vota:
mo tuorne, ma nisciuno te saluta!
Gnorsì, nun hé vinciuto,
‘a guerra s’è perduta, ‘o saccio, ‘o saccio:…
Ma tu, ca sì suldato, hé combattuto…
Tu sì ‘o suldato? E i’ t’abbraccio!
E che dire di Tammurriata nera? Pochi sanno che l’ha scritta lui, col consuocero Nicolardi e su questo mi ci arrabbio perfino. Essa nasce da un sofferto sentimento per la tragedia delle donne di Napoli durante l’occupazione alleata ed è un capolavoro di antirazzismo e di intercultura sognata, ciò che purtroppo non è stato compreso da certi interpreti successivi, inutilmente e stupidamente salaci di fronte a una nascita “color cioccolata”, pessimi epigoni di una versione troppo superficiale e banalizzata della Nuova Compagnia di Canto Popolare, col codicillo finale che – se è giustificata dall’intento di creare l’ ambientazione – finisce per stravolgere l’autentico significato di una canzone profondamente dolente e patriottico-popolare (anche nella scelta del genere tammurriata).
Voglio concludere, per esaltare il genio del nostro compaesano oltre l’orizzonte italico e napoletano, con alcuni riferimenti musicologici non miei, che allargano la prospettiva interpretativa di E.A. Mario verso la mediterraneità e la Grecità classica. Parliamo sia del Piave, sia di una notissima e struggente composizione (Canzona appassiunata), sia di un’altra che mi perdonerete se chiamo “patriottico-locale”, quella dedicata alla fontana degli innamorati delle nostre contrade, Funtana all’ombra, un immenso capolavoro di versi e musica (melodia e armonia). Ebbene, secondo Pietro Andrisani, in tutte e tre questi pezzi si sentono echi melici grecizzanti di un DNA lontanissimo: <<La Leggenda del Piave, ad esempio, è stata costruita su di una scala pseudo-dorica che per i Greci doveva avere un carattere essenzialmente fiero, marziale, educativo; mentre nell’impianto di Canzona appassionata prevale l’elemento ionico che per gli Elleni doveva adornare di note poesie d’indole patetica, dagli avvincenti affetti o da struggenti desideri; Funtana all’ombra, infine, si crogiola su di un’harmonia pseudo-misolidia d’indole amorevole e di natura agreste>>.
<<Nell’idea che i suoi canti gli sarebbero sopravvissuti, continua l’Andrisani, E.A.Mario se ne dipartì sillabando alla figlia Italia, con l’ausilio di un alfabetiere, l’incompiuto <<sto morendo…>>. Certamente egli voleva terminare la frase con un imperioso punto interrogativo… <<poi abbandonò il capo sul braccio di lei e chiuse gli occhi per sempre>>, racconta Bruna Catalano Gaeta nella biografia di E.A.Mario. E così prosegue: <<Abbandonando il capo sul braccio della figlia Italia quella frase incomposta, interrogante ed imperativa, allo stesso tempo, acquistò un valore emblematico. Egli voleva esprimere il noto concetto del grande cantore venosino che recita: Non omnis moriar (Non tutto morirò)>> (pp. 67-68). Mi si permetta di immaginare che, appoggiandosi alla figlia nominalmente simboleggiante la Nazione italiana, Giovanni Gaeta ribadiva sì la sua tenerezza di padre ma forse, allo stesso tempo, lasciava il timbro di uomo-poeta innocente, sincero e ardente patriota.
Vincenzo Aversano
(già pubblicato in: L’Areopago Letterario, dir. Michele Sessa, Anno XXIX, n. 1, febbraio 2013, pp. 9-14)
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