L’intellettuale, che ha sempre anticipato i cambiamenti sociali ed osservato con particolare attenzione degrado, povertà e periferie, è stato spesso citato a sproposito ed utilizzato da destra e sinistra indiscriminatamente. Oggi, chi governa non riesce ad intercettare le istanze della popolazione, ed allora affidarsi alle riflessioni di Pier Paolo Pasolini può risultare utile.
Pier Paolo Pasolini è stato un intellettuale molto divisivo, per l’autonomia di pensiero e per aver anticipato con le sue prese di posizione il mutamento dei tempi. Di conseguenza, la sua intelligenza libera spesso entrava in collisione con l’ortodossia comunista: la sua vita e le sue idee non potevano essere ingabbiati in un partito disciplinato quale era il PCI degli anni cinquanta e sessanta.
In un volume di qualche anno fa, Baldoni e Borgna: “Una lunga incomprensione. Pasolini fra destra e sinistra” (Vallecchi 2010), hanno ricostruito i suoi rapporti con la cultura politica italiana, essenzialmente con quella comunista, alla quale ha aderito con spirito profondamente critico. Partendo da posizioni differenti, gli autori hanno individuato la grandezza del suo pensiero e l’attenzione con cui molti si sono confrontati con le sue idee e con il suo lavoro. Ognuno del resto continua a prende dai suoi scritti quello che serve: frasi, pezzi di poesie, spesso distorcendone il senso. È stato considerato da tanti affine a posizioni del tutto differenti dai suoi intenti. C’è poi da aggiungere che è stato uno dei pochi intellettuali che si sia compromesso con alcune questioni riguardanti la vita civile e politica italiana.
Nella raccolta di scritti, apparsi su vari giornali e periodici, tra il 1973 e il 1975 (“Scritti corsari”, Garzanti, 1975), Pasolini rilevava l’importanza di una cultura, quella estensiva della società italiana con i suoi mali e le sue angosce, che fosse visibile ed avesse una dimensione pratica. Nei suoi scritti, c’è la denuncia della realtà contemporanea e dei costumi consumistici, delle tendenze dominanti negli anni intorno al sessantotto. Aggredisce come un “corsaro” il degrado che lo circonda e del quale fa parte, suscitando forti polemiche per la sua personale battaglia contro ogni conformismo e ogni regola consolidata, osservando che se i valori autoritari sono crollati gli stessi sono stati sostituiti da edonismo ed egoismo.
Pier Paolo Pasolini scrisse dopo i primi quattro anni della sua vita romana: “Le ceneri di Gramsci”, poemetto composto nel 1954, che uscì sulla rivista “Nuovi Argomenti” del novembre-febbraio del ‘55-’56, molto interessante per comprendere il suo rapporto con la cultura comunista. In seguito fu pubblicato in una raccolta di poesie nel 1957.
Agli inizi degli anni cinquanta, dopo essere stato cacciato dal Friuli per motivi omoerotici, Pasolini scopre Marx e Gramsci. I suoi primi anni a Roma sono molto difficili: è disoccupato, abita in una casa in affitto e la mamma è costretta a lavorare come cameriera. Scrive qualche articolo ed incontra Sergio Citti che gli fa conoscere il linguaggio delle borgate romane. Fa un apprendistato di vita, continua a scrivere poesie, conosce uomini di cinema e coltiva dentro di sé il desiderio di uscire dall’anonimato per entrare nel mondo della letteratura e del cinema ufficiale. Nello stesso tempo, frequenta il poeta omosessuale Sandro Penna con il quale stabilisce un sodalizio di coppia, che lo porta la notte a cercare giovani romani con cui praticare sesso omosessuale. Questi quattro anni sono di estrema miseria ma anche di grande conquista culturale ed intellettuale.
Nella poesia il poeta davanti alla tomba diAntonio Gramsci, presso il cimitero degli inglesi a Roma, dialoga con le sue spoglie, descrivendo un maggio autunnale, differente dal maggio 1919 quando l’intellettuale ordinovista aveva avuto il coraggio di fondare un nuovo giornale con la speranza di cambiare l’Italia. Ora è evidente “il grigiore del mondo, / la fine del decennio in cui ci appare / tra le macerie finito il profondo / e ingenuo sforzo di rifare la vita”.
Da questo primo confronto nascono le riflessioni di Pasolini sulla sua vita e sulla società italiana contemporanea, in cui il dato autobiografico si unisce e si intreccia con quello storico-politico. Emerge quindi il tema pasoliniano delcambiamento della società, avvertito drammaticamente dallo scrittore, che, sempre rivolgendosi a Gramsci, ricorda il mondo rurale che sta ormai scomparendo. Oggi al suo posto c’è quello povero delle borgate, iquartieri popolari e periferici di Roma, un mondo che non gli appartiene, ma da cui si sente attratto. Il poeta ammira la vita proletaria per “la sua allegria” non per la “lotta”, per “la sua natura” non per la sua “coscienza”. In questi versi il popolo gli interessa nelle sue espressioni più autentiche e vitali, e quindi più sincere. Malinconica è la descrizione del quartiere operaio Testaccio: gli operai tornano nelle loro case, si accendono rari lumi, i giovani gridano nelle piazze, ma tutto ciò non rappresenta altro che il declino, visto l’affermarsi della società dei consumi che determinerà la fine di questo mondo, i tratti del mondo popolare. Rivolgendosi a Gramsci gli dice di sentire la gente che consuma una vita ingannevole ed espansiva, che non è vita vera ma sopravvivenza: “Ma io, con il cuore cosciente / di chi soltanto nella storia ha vita, / potrò mai più con pura passione operare, / se so che la nostra storia è finita?”.
Quando Pasolini esce dal cimitero degli inglesi, vede i rari autobus che brillano, si accorge di alcuni militari che vanno senza fretta sul monte che cela prostitute nascoste tra mucchi di immondizia. Non lontano in mezzo ad altre casette, alcuni ragazzi leggeri come stracci giocano non più nella brezza fredda ma in quella primaverile, mentre altri giovani fischiano sopra i marciapiedi nella serata romana. Infine, sente le saracinesche dei garage che si chiudono, i rifiuti e l’odore di miseria.
Ora avverte di essere un povero che vive tra i poveri e a cui ogni tanto capita di amare il mondo così come già da adolescente gli capitava di odiarlo: il mondo gli appare diviso e disprezza la parte che ne ha il potere. Eppure ha la volontà di non scegliere tra le due parti e vive in quel periodo del dopoguerra perché non sceglie né l’una né l’altra e ama il mondo che odia, cioè la sua vita misera del sottoproletariato delle borgate, sprezzante e persa perché segue l’impulso cieco della coscienza.
Nei versi emerge la contraddizione del poeta tra adesione all’ideologia comunista ed al contempo lo stare contro: prevalgono istinto e passione contrapposti alla razionalità, che portano Pasolini a non potervi rinunciare. Ed allora, rivolgendosi a Gramsci: “Mi chiederai tu, morto disadorno, / d’abbandonare questa disperata / passione di essere nel mondo?”.
Esprime la sua contraddizione: il poeta ha tradito il mondo borghese del padre, ma ora è attaccato al calore degli istinti e all’estetica passione; egli è attratto dalla vita dei proletari che è precedente a tutti e due, e gli piace il proletariato per la sua natura allegra e non per la sua lotta; gli piace la sua vitalità primordiale e non la sua coscienza di classe. La forza del proletariato è quella che gli dà una ebbrezza e una luce poetica. Sa di essere privilegiato perché possiede la più esaltante dote dei borghesi, la conoscenza. Ma appena egli capisce la storia, a sua volta ne viene posseduto perché è illuminato da essa. Vive una vita da dandy provinciale ed ha una natura che sfuma tra l’autorità e l’anarchia. Intorno a lui sente il rumore del sesso e della luce, un rumore di lietezza che si aggira in tutta Italia, tanto che essa non ne trema perché ne è assuefatta. La risposta finale è implicita: io tra la vita illuminata, culturale e ideale proposta da Gramsci e la vita pratica, disperata, omoerotica scelgo certamente quest’ultima perché seguo la mia passione estetica e il calore dei miei istinti.
Pasolini sceglie il presente e la sua vita pur non rinnegando l’ideale di Gramsci, il quale, resta il politico e il filosofo che ha illuminato la storia d’Italia e del Partito Comunista Italiano. Tuttavia la sua scelta è legata alla vera natura degli uomini che non hanno coscienza di classe ma vivono di allegria e vitalità, come accade nei giovani delle borgate romane.
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