È stato appena pubblicato il volume di Emilio La Greca Romano: “Paese d’anima e memoria”. Ho realizzato alcune note introduttive che di seguito riporto integralmente.
Scrivere un libro di poesie per rievocare un paese, significa usare una importante forma narrativa per descrivere un contesto antico e renderlo vivo, per esprimere emozioni e stati d’animo. E antico è il ricordo di una comunità che rimanda alle forme aggregative che appaiono riconosciute e riconoscibili ai membri che si stringono intorno a valori e legami sociali, ad una società coesa in cui gli usi e le tradizioni definiscono una specificità, una propria forma identitaria.
Quel paese di cui parla l’autore è Acciaroli, che è anche il mio paese, e per questo tante cose in quelle liriche sono vissute da chi scrive che è predisposto a coglierle e a ricordarle, insieme ai tanti lettori che nel percepire quei luoghi sentono sensazioni lontane.
Emilio La Greca Romano ha pubblicato nel 2001: “Un paese, una storia” (Centro Promozione Culturale per il Cilento), per raccontare quel borgo che “guarda il Tirreno”, fra Paestum e Velia, e si protende “come lingua d’oro, nel limpido mare”. Domenico Chieffallo, il compianto storico del Cilento, amico di entrambi, parlando di quel libro rilevava le micro-storie, le piccole storie, che “mimano i vari momenti della vita, lo scorrere spesso monotono delle ore, l’uniforme ripetitività dei comportamenti”, dando voce al paese e “scandendone i ritmi esistenziali”. La Greca Romano già in quella prosa illustrava la vita di quella comunità che vive il mare e di mare, ascoltando “l’infrangersi delle onde sulla scogliera per rompere il silenzio del tempo”. Del resto, se il termine etimologico di Acciaroli è Aczarùlo, di cui molti parlano, che richiamerebbe proprio alla sua caratteristica, cioè “luogo senza tempesta di mare”, ecco che quella relazione tra il paese e il mare è del tutto spiegata. Un passo di quel libro è emblematico per vivere un’antica memoria: “La tofa (buccina) nella notte ancora giovane, dice partenza, saluta marosi, altri condannati di mare, senza equilibrio, protesi alla lotta di sopravvivenza, a saporare salsedine, a battere denti, a tagliarsi facce nel vento”. Questo lo riporta l’autore, citando un altro importante studioso cilentano, Amedeo La Greca.
Dopo queste notazioni contestuali, ora giunge la raccolta di liriche: “Paese d’anima e memoria”, un’ideale prosecuzione dopo vent’anni di quegli elementi accennati, perché allora erano pagine di storia che descrivono ritmi di luoghi e di vita. Evidentemente occorreva continuare questa volta a narrare, con piccoli tratti di penna e versi di getto, certamente però meditati e sentiti, ciò che per l’autore è stato ed è racchiuso “nella distesa marina remota, / nelle sospese narrazioni allegre, / venirti a scovare nell’intimo; / struggo di viaggio / a nostro costume giovanile, / al respiro dei ricordi, / alle nostalgie di frescura d’estate respirante” (Nudi nel tepore di Natale). O ancora: “A lampare ridiventi piana poesia, / nella variante notte che sospira. / Rivenga credito di vita bella / e sosti al sorriso negli occhi. / Viriamo a pace d’orizzonte, / nel mare di Velia, / ove possiamo rimanere / e nelle altezze dei sorrisi, / troviamoci nudi nel caldo Natale, / assorbiti d’amore in melodiche note, / tornanti in cerchio di bene, / dopo benedette fragranti cucine di sapori, / in larga quiete, nelle sere abitate d’amore”, altri versi che scorrono lievi nella stessa lirica.
Introdurre il lettore in queste atmosfere, che riportano al Natale, e dunque alla festa, ma anche al tempo vissuto con lo sguardo dritto verso il mare, è ciò che fa l’autore quando parla di lampare, di notte, di virare nel mare di Velia. È lavoro quotidiano, è l’esistenza di una comunità che si stringe intorno all’unica risorsa che allora costituiva la vita. Poi tutto cambia con il turismo e con notorietà del borgo. Ma la magia va alla memoria di decenni passati che erano così sereni da colmare l’animo e i sensi.
Non si poteva, come fanno i poeti, non rivolgersi a ciò che conduce alle emozioni: “Sognante marina assorta / a lunare curvatura altalenante, / dispone accanto / corali albescenti case. / A sferoide di luminoso plasma / una solitaria chiesa antica ai mari. / Dimore stanno allegre a luccichio brillante / in multiplo chiaror d’oriente / che traguarda il sole” (A tessitura corta di tramaglio tuo ritorno). In questa lirica il mare è ancora centrale: gli uliveti che si proiettano nelle acque, ovvero un’altra forma di sussistenza che dona speranza alle rocce di “aspra terra di borgate solitarie, / cuori abbarbicati a rocce severe / come paesi di sommità crollanti, / adagiate minute, dure case a riva”. Ed ancora, dopo qualche verso: le “reti corte di tramaglio” sono determinanti “nell’ora che si tocca col respiro / che grida suo moderno, / siamo reti provenienti, / intreccio di pensieri, / groviglio di parole, / viluppo di saperi, / intricate decisioni”.
Quei pescatori non possono che sfidare il loro destino: “Andiamo a Poseidonia ancora, / dirigiamo ad altre alghe marine. / E posiamo nascita al petto, / nel cerchio senza schiamazzo, / sul muschio vegetale dell’estate. / A trionfo di bellezza di natura / portami indocile cuore, / ai succhi fruttosi freschi delle coste, / nello iodio che sale dall’acqua di bella stagione, / come liturgia di santi in celestiale orazione” (Miracolo d’Iddio).
Nella stessa lirica, c’è un altro elemento comunitario importante, costituito dalla religiosità della gente: “Parlami d’allegro Natale, / nella maschera d’assenza del paese, / al niente mio fatto preghiera. / E torna, rivieni in baci di gelo / alle agrumate onde paradiso, / alle madri genuflesse, ai sospesi grani, / a credenti d’assoluta convinzione, / in chiesa di sale, nei vicoli di cuori. / Restami paese negli odori dove spira brezza mare. / e l’amore ha suo farsi cosi grande, oltre parola. / E qui m’assuma immensità d’universo come amore”. Qui è scandito il passaggio del giorno e dunque lo scorrere della vita: “La sera muore tarda, fra luci di sol gelo. / Nell’aria larga del mattino torneremo nati nuovi. / A morbida terra fragranza, / all’odorizzante pietra forte e sola, / al sentire scomodo di muffa / e copiosa fresca pioggia. / Staremo a libertà nel canto di fragranze, / a melodie sapori. / Non mi passi un sole al petto, resti canto mio, / in questo nudo amore, biancheggianti case, miracolo d’Iddio”.
Nelle tante poesie della raccolta ci sono i vasci, i vicoli, i portoni, la via di sotto, il porticciolo e le barche, prima del porto turistico e commerciale. Ed ancora: i sorrisi della gente, che si conosce e si saluta; i cunti e i fatti quotidiani; le passeggiate e le chiacchiere; la solidale e amicale frequentazione; infine, anche la campagna se ti allontani dal borgo per ascoltare altri suoni e odori, oltre quello del mare.
“Nel canto d’una sirena” vanno le barche, dice il poeta. Ed in seguito: “Largo mare s’apre nell’alba, / a cielo maturo che butta luce. / Vanno strascicando, / nel fuoco di mezzogiorno, / pescatori per piazze vive indecorate, / come di pesca, col pensiero nei ricordi al passo”.
Queste notazioni conducono ad elementi caratterizzanti le comunità di vita e di destino, rilevate in ricerche territoriali, prima come CI.RI. Cilento Ricerche e poi attraverso alcuni volumi: “Identità cilentana e vita quotidiana”; “Le comunità cilentane del novecento”; “Cilentanità”. Si trattava di rilevare le comunità che recuperavano il senso delle radici, il rapporto con il territorio, la conoscenza della natura in un contesto in cui le risorse fisiche assumevano, accanto al lavoro umano, un ruolo di co-protagoniste di un sistema sociale ed economico dove gli uomini, rispecchiandosi negli oggetti, si rimpossessavano del proprio stato di natura.
La natura è sempre presente, come pure le evocazioni e i ricordi. In “Armonica sinfonia d’olfattive note”: “La romita casa. / Ho una stanza di rondini tornate. / S’allegrano di primavera. / Lucertole accostano a carezze di sguardi. / Stiamo di pace avvezzi alle fatiche, / col cuore tagliato da sfere di sole”. In: “Fuori dalle cose in voli d’albatri”, l’autore scrive: “Ridi fuori dalle cose in largo volo d’albatro, / lontano d’appressanti chiassosi gabbiani”; e poi facendo similitudini con il nostro animo: “E ci diamo uguali voli di livello marino, / correnti veloci all’acque turbolenti sulla superficie. / Soli che siamo, bellissimi. / Soli che siamo, restiamo. / Soli che siamo, d’amore. / E sfondanti orizzonti morbidi, / liberi d’albatri allegri voli, / inoltriamo foranti chiusura, / verso grandezze prossime di volo. / Stiamo fuori dalle cose, / dove un respiro d’immenso ci trova. / Rimanenza volontaria ai soli che siamo, / in noi soltanto abitanti di tepore”.
In quelle comunità erano importanti i significati della vita materiale, che conducevano alla sofferenza e al sacrificio; si trattava di una vita precedente lo sviluppo della società, della modernità, quello che è ora l’Acciaroli affollata. È meglio sembra voler dire con forza il poeta quel luogo identitario che evocava sensazioni e con la memoria andava a tempi andati, a quelli degli anni sessanta, settanta, e poi ottanta del novecento, quando la vita era ancora semplice perché la società complessa, altra da sé, tardava a venire.
Eppure il nuovo ora è troppo presente. In: “Falsi anni scesi nella storia”, le liriche conducono a: “Antiche pietrose case al nuovo, / appese al filo sconcio del mattino, / hanno facce ripugnanti senza sguardo. / Ora cemento affogante scogliere, / pregi di paese mare, storia materiale, / reperti scapitati di civiltà passata. / Finiti occhi di abitate pietre di sole, / riparanti amabili respiri”.
La memoria è molto viva in: Andammo, proprio in quel “Cilento crocevia di scambi”, dove c’è storia, paesaggio, a soprattutto le gesta di eroi e miti che rendono grande questa terra. Scrive l’autore: “Andammo nei paesi dell’anima. / E restammo nel vicino sgravarsi di mare, / come giovenchi di fortuna nella terra grassa, / su fertile lingua protesa oltre rive, / a creste d’onde con magie notturne / nel rischio di bellezza, a paradiso d’abisso”.
In Emilio La Greca Romano non c’è però il restare del tutto racchiusi nel ricordo. È proprio il partire dal presente e dalla consapevolezza del nuovo che ri-conduce ai colori ora impressi nell’animo; e bastava essere predisposti per coglierli, bastava respirare e osservare, anche un’onda che si infrangeva sugli scogli. Non c’è adesso che confusione e rumore, che tacita i silenzi e ti allontana comunque da quell’intimità che dovresti provare nel coinvolgimento con la natura, ora sopita se non c’è consapevole e soggettiva predisposizione oltre che volontà di afferrarla.
Concludo con versi tratti dalla poesia: “Entra nel paese mio che resta, sosta d’amore”: “Stiamo a stretti vicoli sudati di storia, / a passata marina, / a sapori, a fragranze passioni, / ai nostri padri amati, / alle assenze gravi, / a fatte cose in abito di presenti moti”.
Resta essenziale leggere queste liriche per essere proietti in atmosfere che sembrano ferme e rarefatte per poter sognare, anche se il moto è evidente, un movimento che dall’animo ti guida alla memoria. Almeno questo può costituire per chi scrive il messaggio dell’opera: “Paese d’anima e memoria”, soprattutto quando si coglie il sole affogato ai mari, la magia lunare e le vele, la buia pesca, i passi uniti di cianciolo e lampare, le acque ignote, intime, profonde e scure. Tutto ciò permette poi di vedere con il giorno il paese che si desta a meraviglia, al ritorno dei marinai, come è molto ben narrato in una delle ultime liriche di Emilio La Greca Romano: “Parata di cuori e sfoggio di sole”.
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