“Io non sono, non ho mai preteso, né pretendo di essere un uomo rappresentativo della cultura. Però sono rappresentativo di qualche cosa. Io credo di essere rappresentativo di quegli strati profondi delle masse popolari più umili e più povere che aspirano alla cultura, che si sforzano di studiare e cercano di raggiungere quel grado del sapere che permetta loro non solo di assicurare la propria elevazione come persone singole, di sviluppare la propria personalità, ma di conquistarsi quella condizione che conferisce alle masse popolari un senso più elevato della propria funzione sociale, della propria dignità nazionale e umana… La cultura non soltanto libera queste masse dai pregiudizi che derivano dall’ignoranza, dai limiti che questa pone all’orizzonte degli uomini: la cultura è anche uno strumento per andare avanti e far andare avanti, progredire e innalzare tutta la società nazionale…”. (Giuseppe Di Vittorio, tratto dal Discorso al II° Congresso della Cultura Popolare, Bologna, 11 gennaio 1953)
L’11 agosto del 1892 nacque a Cerignola Giuseppe Di Vittorio, un leader sindacale e politico indiscusso. Morì a Lecco il 3 novembre 1957.
A differenza di molti altri sindacalisti non aveva origini operaie ma contadine, proveniva da una famiglia di braccianti pugliesi. Partecipò alle agitazioni per la rivendicazione dei diritti già a 10 anni. Nel 1907 fondò a Cerignola il Circolo giovanile socialista e l’anno seguente entrò nel direttivo della Lega; nel 1911 era segretario della Camera del lavoro di Minervino Murge. Gli anni tra il 1911 e il 1914 furono da Di Vittorio definiti il periodo normale del sindacalismo pugliese; il 1919-21, fu considerato il periodo rivoluzionario, e durante il 1921-24 avvenne la reazione. Evidentemente ci si riferiva alle condizioni politiche dell’epoca, che dopo varie agitazioni fu caratterizzato dalla reazione fascista. (P. Craveri, voce: “Di Vittorio Giuseppe”, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 40, 1991)
L’elemento di normalità fu la costituzione di un’organizzazione sindacale stabile, diffusa sul territorio e legata da vincoli di solidarietà: si trattava di affermare e far rispettare una serie crescente di patti collettivi. Ma ci fu soprattutto una profonda rivoluzione civile, prima ancora che sociale, rappresentata dalla lenta e costante conquista della cittadinanza da parte del proletariato agricolo pugliese. Le conquiste passavano attraverso il localismo, l’autonomismo e lo spontaneismo, prima ancora che si diffondesse il sindacalismo rivoluzionario. Di conseguenza, la condizione dei pugliesi era molto differente da quella di altri lavoratori italiani.
Le forme di lotta avevano valenze rivendicative ed organizzative, che passavano dall’occupazione dei latifondi (dopo la prima guerra mondiale), per affermare poi la pratica del lavoro. L’azione sindacale doveva darsi obiettivi politici, che riguardavano le opere pubbliche, gli interventi a sostegno di determinate culture, affermando livelli di scontro più ampi di quelli sindacali, non limitati dunque solo ai diritti e all’occupazione.
La svolta ci fu nei primi mesi del 1921, con azioni dirette fuori da qualsiasi cornice legale. Le organizzazioni contadine persero allora la loro forma rivendicativa e intenzionalmente rivoluzionaria, per convertirsi in quella sempre più elementare di resistenza. Tutto ciò mentre si acuivano tutte le divisioni interne alle organizzazioni sindacali e politiche. La combinazione di terrorismo fascista e di repressione degli organi statali incominciava ad essere evidente: numerose Camere del Lavoro furono incendiate; molte amministrazioni socialiste furono costrette a dimettersi; centinaia di militanti vennero contemporaneamente denunciati e arrestati.
Di Vittorio fu arrestato e tradotto nelle carceri di Lucera il 10 aprile 1921. Durante la detenzione si pose il problema della sua candidatura per le elezioni della Camera dei deputati del maggio 1921. Per quanto riluttante ad assumere quell’impegno, fu sollecitato da numerose strutture sindacali. Sebbene le sue simpatie erano rivolte alla lista comunista, accettò la candidatura nelle liste del PSI, “alla condizione espressa che non gli si chiedesse l’iscrizione a detto partito né prima né dopo l’elezione”. La sua elezione e quella di Faggi posero dei problemi all’interno dell’USI (Unione dei Sindacati Italiani), per il principio di incompatibilità. Allora fu indotto a fare una dichiarazione in cui si impegnava a “non fare il deputato”. (P. Craveri, cit.)
Riprese l’attività sindacale in Puglia e nel giugno del 1921 divenne segretario della Camera di Bari, con l’intento di unificare il suo organismo con quello confederale.
Nonostante le aggressioni fasciste, si avvertiva un accentuato scontro politico ed ideologico che attraversava le organizzazioni del movimento operaio. Di Vittorio si distanziava dalle posizioni di sindacalismo puro, manifestando l’intento di essere autonomo e unitario al tempo stesso. Condivideva i presupposti della politica sindacale del PCd’I, senza compiere tuttavia scelte politiche distanti dalla sua esperienza di militante sindacale.
L’incontro con Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti lo portò ad aderire al Partito Comunista. Nei primi del 1924, Di Vittorio si alleò con i terzinternazionalisti, manifestando il suo parere favorevole all’alleanza elettorale politica fra socialisti e comunisti. Aveva pienamente sviluppato la nozione leninista del partito e il rapporto di esso con il sindacato. Ed è proprio in virtù della piena consapevolezza del partito come soggetto rivoluzionario che egli dichiarò che occorresse sviluppare la parola d’ordine dell’Internazionale comunista: “governo operaio e contadino”. La politica agraria e le stesse tesi sul Mezzogiorno rientravano proprio in questa prospettiva.
Da quel momento in poi si impegnerà soprattutto in politica: va in Urss, come rappresentante del Pcd’I presso l’Internazionale Contadina: nel 1930 a Parigi fa parte del gruppo dirigente comunista assumendo l’incarico di responsabile della CGIL clandestina. Nel 1939 dirige “La voce degli italiani”, quotidiano antifascista. Il 10 febbraio 1941 è arrestato a Parigi dai tedeschi e condannato a cinque anni di confino che sconta sull’isola di Ventotene. Nel 1943 viene liberato e partecipa alla lotta di Liberazione. Firmatario del Patto di unità sindacale di Roma del 1944, diviene segretario generale della Cgil unitaria e poi, dopo la scissione, della Cgil fino alla sua morte. Nel 1946 viene eletto deputato dell’Assemblea Costituente.
La convinta adesione agli ideali comunisti fu sempre contraddistinta dalla sua totale autonomia, che ebbe il suo momento più noto nella condanna decisa della feroce repressione sovietica in Ungheria nel 1956. Un altro punto fermo del suo pensiero fu il rifiuto della violenza nelle lotte di massa e nell’azione del movimento sindacale, convinto come era che nel nuovo regime democratico ai lavoratori erano dati gli strumenti pacifici per sviluppare le loro rivendicazioni. Affermò il valore sociale e culturale del lavoro: l’autonomia, la democrazia e l’unità del sindacato su tutti gli altri obiettivi.
Per lui, la CGIL doveva restare rigorosamente plurale e apartitica, senza per questo venire meno ad una sua naturale vocazione politica, centrata sulla difesa e lo sviluppo della democrazia e della Costituzione repubblicana, che aveva nella solidarietà e nei diritti i suoi principali valori.
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