Giovedì 26 agosto 2021
Ore 18:30
presso la Chiesa dei SS. Giorgio e Nicola – Postiglione (SA)
Presentazione del libro:
“La reliquia della croce” di Giuseppe Marotta, Ed. ARCI Postiglione.
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Sanda Lena
Sanda Lena ‘mperatrice
mamma re Custandinu ‘mperatore
p’ mare isti a cercà
la Croce r’ lu nostru Signore.
La trovasti e la pigliasti:
r’ le tre parti
una la mannasti a lu figliu tuou dilettu
una la lassasti
l’ata a Roma t’ la purtasti.
P’ la tua sandità
semb’ la Croce fann’ amà.
L’imperatrice Elena si recò in Palestina e, salita sul Golgota per purificare quel luogo sacro dagli edifici pagani, fatti costruire dai Romani, identificò la Vera Croce del Redentore, tra le tre ritrovate, ed il cadavere di un uomo, messo a giacere su di essa, tornò all’istante miracolosamente in vita. La suddivise in tre spezzoni: uno, ben chiuso in una cassa d’argento, lo lasciò a Gerusalemme presso il Santo Sepolcro, l’altro inviato a Costantinopoli fu nascosto dall’imperatore nel suo colosso, il terzo fu portato da lei stessa a Roma e custodito nella sua cappella privata, poi diventata la Basilica di Santa Croce in Gerusalemme. Cominciarono a diffondersi nel mondo i frammenti del Santo Legno: anticamente ve ne era sempre uno nella croce pettorale dei vescovi e tutte le parrocchie ne custodivano uno come reliquia. Oggi, però, questo privilegio è diventato più unico che raro, in quanto i pezzi maggiori conservati a Roma si sono talmente assottigliati che la distribuzione dei frammenti è stata completamente interrotta, già dagli inizi degli anni cinquanta del 1900.
Per l’autore, “la Croce è la lampada che illumina il cielo e la terra”, e costituisce l’occasione di una profonda riflessione: “in questo mondo nulla è attribuibile al caso e, quelle che a volte sembrano coincidenze, altro non sono che gesti d’amore del Signore per le sue creature, segni predisposti da Dio per manifestarsi a noi”.
Il lavoro di Giuseppe Marotta sulla reliquia della croce nella chiesa di San Giorgio e Nicola a Postiglione è suddiviso in almeno tre parti: la prima riguarda le notizie sulla Santa Croce che si trova nella chiesa di Postiglione; la seconda tratta il profilo dell’Abate Andrea Marotta, illustre postiglionese, parroco nel suo paese natio e partecipe allo “spirito di rinnovamento della società a lui contemporanea”, che ebbe in dono proprio la reliquia della Santa Croce di Cristo. Infine, la raccolta e pubblicazione di documenti inediti ed originali riguardanti la fede e la dedizione dei postiglionesi per la sacra reliquia.
Gli studi sulla Santa Croce costituiscono un lavoro interessante, che si contraddistingue per le ricerche effettuate e per aver voluto riportare un esempio di segno tangibile, che ha caratterizzato la comunità religiosa di Postiglione.
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Di seguito alcune considerazioni su reliquie, leggende e racconti mitici
Il mito delle reliquie
In un tempo molto lontano, una donna asserì di essere in possesso di un dito di San Giovanni Battista. La reliquia così importante attirò l’attenzione di tanti, ma non era facile dividere l’osso e venire a capo della questione. Si decise di rivolgersi direttamente al divino e, dopo una notte di preghiere, la comunità ebbe una risposta alla sua devozione: dal dito uscì del sangue che cadde su un pezzo di stoffa. Solo allora il panno poté essere diviso in tanti pezzi e riuscì a soddisfare il bisogno di tutti.
Questo episodio attesta la proliferazione delle reliquie che si diffusero dopo che Elena, la madre dell’imperatore Costantino, nel 327 si convertì al Cristianesimo. La donna si recò in Terra Santa per un pellegrinaggio e, secondo la tradizione, ritrovò diversi segni della Passione di Gesù: la Vera Croce, la Corona di Spine, i Chiodi, il Titulus Crucis, e molti altri. Il viaggio di Elena accese la devozione verso tutti i santuari che potevano vantare il possesso di una reliquia. Da allora le chiese fecero a gara per accaparrarsene una, che non di rado veniva rubata o da ladri professionisti o durante i saccheggi delle città. Esistevano poi dei veri e propri mercanti specializzati in reliquie che, approfittando dell’ingenuità dei compratori, vendevano presunti resti di santi e beati. Nel Medioevo, la venerazione delle reliquie sconfinava nella superstizione: agli oggetti e ai resti mortali di santi e martiri venivano attribuiti poteri miracolosi, taumaturgici e si riteneva che il solo toccarli potesse produrre guarigioni o concedere grazie. Per questo motivo, le reliquie si moltiplicarono contro ogni logica: in età medievale, erano sparse per l’Europa almeno 60 dita di san Giovanni Battista, 3 teste di san Giorgio, diverse Culle di Gesù Bambino, almeno dieci Prepuzi, innumerevoli frammenti del Legno della Croce. Al fine di conservare le reliquie, si introdusse il Reliquiario, una custodia di grandezza, forma e materiali vari (urne, cofanetti, teche, ampolle, ecc.) destinata a contenerle. (A. Lombatti, “Il culto delle reliquie”, Sugarco Edizioni, 2007)
L’uomo ha sempre avvertito il bisogno di manifestare la sua fede attraverso qualcosa di concreto e di tangibile per rendere possibile il suo rapporto con la divinità. Da qui la credenza della virtù miracolosa delle sante reliquie, i resti di corpi dei santi e dei martiri, ma anche gli oggetti e gli strumenti conservati in luoghi sacri e di culto.
Il termine proviene dal latino reliquiae, resti, equivalente al greco leipsanon, lasciare in ricordo. Prima dell’avvento del Cristianesimo, alcuni oggetti erano conservati in memoria di persone realmente esistite, ed erano associati a particolari sistemi religiosi o culturali. Le persone, che avevano orrore della morte, con la reliquia trasformavano quell’orrore in speranza. Le forme di venerazione delle reliquie erano legate a: processione, visita, esposizione, benedizione. Durante l’omaggio reso, il fedele si inginocchiava, baciava l’oggetto di culto ed a volte si prostrava a terra. La solennità dell’evento era costituita dall’utilizzo di torce, candele, incenso, che rappresentavano il fascino delle luci e delle nebbie profumate, che simbolicamente erano la vittoria della luce contro le tenebre e il viaggio verso la gloria eterna.
Raffaele Pettazzoni nel suo lavoro: “Religione e società”, rileva lo stretto legame tra religione e mito, superando la concezione che vede il mito come qualcosa di impuro rispetto alla religione. Al contrario si tratterebbe di un elemento integrato alla religione. Ne: “La verità del mito”, Pettazzoni scrive: “Il pensiero umano è mitico e logico insieme, la religione non è puro pensiero razionale, ma partecipa del carattere magico e religioso del mito. L’Essere Supremo creatore non è che un mito delle origini. E la stessa verità di fede è verità di vita. La verità è di ordine religioso, e più specificatamente magico”. L’espressione “verità di fede come verità di vita” è il calarsi proprio nella cultura religiosa popolare, cui sono pervase le nostre comunità. Per Pettazzoni: “L’efficienza del mito, ai fini del culto per la conservazione del mondo e della vita, sta nella magia della parola, nel potere evocativo della parola, del mythos, della fabula (…) come forza arcana e possente”. (R. Pettazzoni, “Religione e società”, Editrice Ponte Nuovo, 1966, 10)
Il mito è storia vera, racconti di avvenimenti realmente accaduti, a cominciare da quelli delle origini. Il mito è storia vera perché storia sacra, per “le concrete forze sacrali ch’esso mette in moto”. La proposizione dei miti delle origini è incorporata nel culto perché concorre agli scopi per cui il culto è celebrato, quelli della “conservazione e dell’incremento della vita”. (T. Silla, “Pettazzoni: il mito tra storia e antropologia”, in G. Leghissa, E. Manera, “Filosofie del mito del Novecento”, Carocci, 2020, 91-99)
Il mito narra una storia sacra, riferendosi ad un avvenimento che ha avuto luogo nel tempo primordiale, il tempo favoloso delle origini. Narra come, grazie alle gesta degli Esseri Soprannaturali, una realtà è venuta ad esistenza. Il mito quindi è la narrazione di una creazione, la dimensione nascosta, originaria delle cose, manifestando la connessione tra uomo e mondo, ma anche tra uomo e memoria di un tempo primordiale in cui il ricordo era felice. (M. Eliàde, “Mito e realtà”, Borla Editore, 1966, 125)
Mircea Eliàde parlava del mito dell’eterno ritorno, ovvero la corrispondenza con il mondo divino che ha costellato il rapporto uomo/natura. Ritornando alle origini è la stessa capacità per la società di rigenerarsi, “ciclizzando la vita come un continuo riconoscere e ritornare”. (M. Eliàde, “Il mito dell’eterno ritorno”, Ed. Lindau, 2018)
Ho trovato l’accostamento tra mito e reliquie pertinente, in quanto riguarda la stessa capacità di osservare l’esistenza e il significato della vita, il collegamento con il passato e la proiezione verso il futuro. E poi l’andare ai segni e alla vita immaginaria con la capacità di mettere in contatto aldilà e aldiqua, in cui si esplicitano credenze, miti e storie. Le stesse proiettano in un mondo, ora perturbato dai disordini e da limiti e precarietà, che hanno fatto dimenticare la condizione originaria di equilibrio tra le forze cosmiche. Del resto, quante leggende mitiche, che sconfinano nei racconti agiografici, servono quasi a rendere più forte il culto dei santi e dei martiri e le loro reliquie.
Nei racconti agiografici la descrizione del martirio è effettuata con dovizia di particolari. San Clemente, nel 308, insieme al diacono Agatangelo, è legato ad una ruota, bastonato e infilzato da pugnali; poi è torturato con aghi infilati nel volto; gli vengono rotte le mandibole e tolti tutti i denti con delle tenaglie. È la sorte di entrambi: “Viene loro tolta la pelle e vengono di nuovo frustati. Sono messi su griglie roventi sopra un fuoco ad arrostire e, poi, gettati in una fornace per un giorno e una notte (…) i torturatori li scorticano con uncini metallici, versano sulla loro testa piombo fuso, legano ai loro colli una pietra e li trascinano per tutta la città. Arrivati sulla piazza sono lapidati dalla folla. Clemente viene nuovamente frustato, bruciato con torce e bastonato in testa. Infine, i due martiri vengono decapitati”. (A. Lombatti, “Il culto delle reliquie”, Sugarco Edizioni, 2007, 37)
Le reliquie si affermano anche e soprattutto grazie ai racconti agiografici dei martiri. Tali racconti sono certamente esagerazioni, ma il martire c’è, è esistito. E le reliquie come segni della presenza dei martiri sono narrazioni che attestano il bisogno di credere nel mito delle origini, ma anche nel mito che permette di superare la crisi della presenza (de Martino) e ricondurre nel collettivo la paura dell’esistente. Qui è il de Martino non più del mondo magico ma de: “La Fine del Mondo”, ovvero la critica del modello occidentale, della società del benessere non più ancorata ai miti, alle reliquie e a quelle forme e segni che consentono l’equilibrio sociale. (E. de Martino, “Il mondo magico”, Bollati Boringhieri, 2017, or. 1948; E. de Martino, “La fine del mondo”, Einaudi, 2002, or. 1977)
Entriamo nello specifico dei rapporti tra popolazione ed eventi che vanno ben oltre la comprensione razionale. Quando Eliàde parlava dei miti, asseriva che la realtà assume un significato e si presenta all’uomo sotto la categoria dei valori: a cominciare dalla sua stessa esistenza, collegata al passato (antenati) e al futuro (discendenti), nonché a tutti gli altri viventi, vegetali e animali, al cielo, alla terra, alle stagioni, al giorno e alla notte. E grazie alle poderose correnti di presenze sovrumane, ora benevole ora maligne, l’uomo stesso può, a determinate condizioni, comprendere e, talvolta, padroneggiare. Tommaso D’Aquino, considerando gli eventi naturali che erano intesi come miracolosi, affermò: “Il naturale doveva essere esteso a includere i fenomeni straordinari della natura, come le più spaventose tempeste o i terremoti improvvisi”. Anche se alcuni attribuivano a Dio questi fenomeni, Tommaso coniò la parola supernaturalis, soprannaturale. Qui si entra nella credenza che esistevano forze soprannaturali, angeli o demoni, che potevano sovvertire le leggi di natura. (M. Eliàde, “Mito e realtà”, Borla Editore, 1966)
Il mito è accostato alla religione cristiana, in quanto quest’ultima proviene da un fatto storico che è la nascita, la morte e la resurrezione di Gesù Cristo. Esso diventa un evento unico e assoluto ma soprattutto irripetibile e imparagonabile, in cui la rivelazione si incastona nella storia senza far perdere il valore dei segni e degli strumenti governati ovviamente dalla volontà di Dio. Il valore aggiunto del Cristianesimo è stato quello di permearsi nella realtà terrena, pratica e personale degli uomini donando loro la possibilità di coltivare uno ad uno, a tu per tu, un rapporto intimo ed esclusivo con Dio stesso. E da qui l’esigenza dei segni di fede, rappresentati dai reliquiari. Calvino criticò le forme esteriori della religiosità, rappresentati da oggetti e segni che allontanano dalla vera dottrina: al contrario occorreva ripristinare la fede autentica e bandire quella affidata a manifestazioni per lo più false. (G. Calvino, “Trattato sulle reliquie”, scritto nel 1543, ora in Edizione Mimesis, 2010)
Ad ogni modo, resta il forte bisogno di trovare segni e simboli, a prescindere da false e vere reliquie: il Concilio di Trento prima e poi una serie di provvedimenti hanno cercato di definire al meglio il concetto di autentico, come pure il potere di una fede che si affermava anche grazie ai segni proposti. Il Codex iuris canonici del 1917 fece una netta distinzione tra le reliquie e nel 1983 un nuovo codice prescriveva il divieto di vendere, alienare o trasferire le reliquie insigni senza la licenza della Santa Sede, ribadendo l’uso di riporre sotto un altare fisso le reliquie di martiri o di santi. Oggi esse sono considerate “un accompagnamento della vita sacramentale” e fanno parte della religiosità popolare. Sono state suddivise in classi in base alla loro preziosità e all’eccezionalità da esse rappresentata, a condizione che venga comprovata la loro veridicità. Le più importanti sono gli oggetti direttamente associati ad eventi della vita di Cristo (parti della Santa Croce, chiodi della crocifissione, frammenti della mangiatoia, la Sindone, ecc.), o resti sacri di santi (corpi interi, ossa, capelli, sangue, carne, ecc.).
Qualsiasi parte del corpo o oggetti appartenenti a santi o martiri assunsero un valore elevato. Ed allora, il traffico delle reliquie servì proprio a rinsaldare i legami di fede. È evidente il potere che la popolazione riservò a figure martirizzate e che per essere sconfitte dovettero essere prima torturate e poi lentamente e con grandi sofferenze uccise. Queste storie servirono ad imprimere nella futura memoria delle popolazioni la forza e la potenza di uomini che si immolarono per l’affermazione della religione cristiana.
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