Il Cilento è stato da noi studiato (1) attraverso gli elementi che caratterizzano la cultura popolare, in quanto si tratta di una terra che ha presentato, fino agli ultimi decenni del novecento, tratti e valori ancora tradizionali, specie nei paesi dell’interno. Il contesto è quello popolare, giacché in questa terra non si sono presentati elementi identificativi e rilevanti nelle classi medie e medio-alte, in quelle nobili ed ecclesiastiche, per ciò che attiene la definizione del concetto di cilentanità. Coloro che gestivano il potere, in passato, preferirono interessarsi della vita nella città, dove elevarono il loro livello di istruzione ed instaurarono rapporti ed amicizie, relegando il territorio ad uno stato di abbandono sfruttandolo a loro piacimento. È, dunque, pensabile che questi ultimi non abbiano caratterizzato questa terra pur avendone il dominio: il mondo contadino ha inciso sulla vita, la società e le stesse fortune, o meglio sfortune, dell’intera zona.
Molti studiosi che osservano il territorio, anche se con differenti sfumature, descrivono quel mondo popolare in cui il termine cilentanità riesce a trovare una certa rilevanza, almeno nelle generazioni meno giovani, quelle poco segnate dall’idea di modernità, e nei luoghi più impervi, dove la “contaminazione” pare non aver del tutto “inquinato” il rapporto cultura/tradizioni. Qui resistono gli elementi tipici della gente cilentana.
Nel territorio del Parco del Cilento e del Vallo di Diano, il processo di modernizzazione non è stato particolarmente rapido: a tratti sono emersi sentimenti di identificazione collettiva caratterizzati da modi di vita immediati dove i contatti risultano essere personali e semplici, dove le dimensioni degli aspetti di vita in comune sono ridotte. Gli elementi comunitari contribuiscono alla coesione della popolazione attraverso una serie di valori tradizionali e significati di vita consolidati nei tempi e negli esempi.
Per affermarsi, una comunità rurale necessita dei codici del suo sapere che si riscontrano proprio partendo dalle radici del quotidiano. C’è un sapere che racchiude tutta la cultura contadina: le parole, i fatti e le leggende narrate, le idee e le concezioni del mondo che investono i grandi temi che vanno dalla morte al rapporto uomo/Dio, all’imitazione del mondo animale, alla visione mitico-fantastica. Vi è nella comunità chi conosce le storie, i racconti e ne possiede le chiavi di lettura. Costui è il saggio, costui riesce ad unire la realtà alla fantasia; attraverso la narrazione si conferisce senso alla vita e si riesce a scrutare il divenire ed il mutamento in un rapporto dialettico tra identificazione ed alterità, tra tradizione e nuovo che, se governato senza brusche fratture, riesce ad assicurare alla società un salutare progresso. (2)
Per parlare di identità, nel nostro caso cilentanità, occorre che si realizzi un processo che faccia interagire elementi differenti che vedono coinvolti la storia, la vita socio-economica, i comportamenti e la psicologia degli stessi, ed anche le istituzioni, il diritto che va ad inserirsi ed influenzare con i suoi disposti la società. Si tratta di un valore collettivo che, a partire dall’isolamento geografico del Cilento, e dunque dall’incapacità di subire profondi condizionamenti esterni, si è definito, attraverso il confronto della comunità con se stessa e con l’ambiente e il territorio, “grazie ad un sistema comune di regole e di pratiche di vita”. (3)
Vi è la consapevolezza che nella “cultura materiale” si possa annidare il senso del valore identitario. Ma la “cultura materiale” è anche rapporto con l’immaterialità, con superstizione e fatalismo. Tutto il percorso identitario non può che fondarsi su: “spirito comunitario, arti e mestieri, feste e riti, lavoro nei campi, dialetto, cucina”. È proprio da qui che si può scorgere il senso reale delle cose ed al tempo stesso l’immaginazione, l’irreale, il fantastico. Questa asserzione trova nell’immaginario collettivo l’idea di una comunità che vive in sé stessa con i propri valori: pensiamo, infatti, a chi sostiene che i racconti di streghe o diavoli, ed il consequenziale terrore che si incuteva nei fruitori di questi messaggi, servivano a fini educativi, cioè a trasmettere il senso del lecito e del proibito nella società.
È evidente che, per affrontare quella de Martino chiamava “crisi della presenza” (4), si individuavano una serie di pratiche e credenze che servivano a mantenere la comunità coesa e meno esposta ai rischi.
Molte storie contribuiscono a conferire quel clima comunitario che unisce il paese, il quartiere. Davanti al focolare o sui puoi (panche in pietra), situati in prossimità degli usci delle case, che ospitavano le vicine ed i loro momenti aggregativi, venivano narrate vicende di maàre (streghe), diavoli, morti viventi e quant’altro potesse influenzare in maniera rilevante l’immaginario collettivo.
La anziana cilentana spesso si rifugia dietro la frase: “Ma io non credo, dico quello che si è sempre raccontato!”. Si tratta comunque del mondo culturale della gente le cui credenze conferivano profondi significati all’identità cilentana che non poteva essere associata solo ad un mondo materialistico dove la vita è lavoro e sudore. In quali certezze poter credere, dove e in che cosa fare affidamento nei momenti di sconforto? C’è una lotta dentro questa donna che nega le tradizioni più forti, che è poi quella dell’umanità intera tra le forze della ragione e dell’irrazionale.
Molto più determinanti i racconti cui tutti gli interlocutori partecipavano con interesse e con quell’alone di mistero e paura. “Si fa la processione con tutte le anime dei morti con una candela in mano. È la processione dei morti, la notte del due novembre. Si faceva la tredicina allo Spirito Santo per tredici giorni prima di quella data, e comparivano le anime dei defunti nella casa dove erano vissuti. Si usava mettere a tavola un piatto, un bicchiere d’acqua e una fetta di pane. I morti erano vuoti dietro, perciò non si voltavano. Simulavano gli atti ma non mangiavano. Erano morti, perciò erano vuoti, erano consumati, mentre davanti facevano la figura. Così si diceva, ma io non li ho visti”. (5)
Si narrava poi del terrore che incuteva il portatore di handicap e il suo triste destino: “Le maàre entravano in casa di notte con la loro scopa di erica per prendere i bambini e porli in alcune fessure abbastanza strette. Lì avveniva che i bambini manifestavano le imperfezioni fisiche più evidenti, diventavano handicappati”. (6)
È inutile sottolineare che le maàre avrebbero pervaso la psiche del fanciullo per il resto della sua vita insieme ad immagini quali il buio, l’ignoto che rappresentavano elementi tipici delle storie narrate anch’esse la sera vicino al fuoco del camino, altro simbolo presente prepotentemente.
Le maàre rappresentano esempi importanti nelle storie che si raccontano nel Cilento; sono ancora oggi nella fantasia popolare e ad esse vengono attribuite molte responsabilità degli accadimenti delle persone. “Un signore si era sposato con una donna che ogni notte si svegliava per cospargersi di unguenti e declamare formule magiche. Poi, trasformatasi in strega, volava su di una scopa per svolgere i suoi malefici. Il marito, non accettando di vivere con una strega, una notte sostituì gli unguenti che le consentivano il volo, la fece precipitare e così si liberò della malvagia megera che aveva preso per moglie”. (7)
Una testimonianza riguarda la processione dei morti.
“C’era una ragazza che era andata a raccogliere i fagiolini; insieme a tre sorelle lavorava la terra. A tarda sera, tornate a casa, le sorelle si addormentarono, lei sentì dei rumori e preferì dormire con le sorelle. Sentì dire: – Svegliati, perché adesso passano i morti! Si affacciò alla finestra ma non vide nulla, sentiva solo i rumori. Si era dimenticata di mettere la candela davanti. E i morti vagavano al buio all’indietro. Quando muore si deve porre nelle mani del defunto la corona e la candela. Siccome non l’avevano messa stavano al buio”. (8)
Avevano commesso questo imperdonabile errore all’atto della morte dei loro cari.
“Un’altra donna, una mia bisnonna, disse al marito: – Devo andare ad ascoltare la messa! – Vieni a dormire che è tardi! – No! devo andare! Erano l’una o le due quando andò in chiesa. – Questo è il mio posto! Allora non c’erano panche, né sedie, chi aveva qualche sedia di legno la portava, altrimenti si sedeva per terra. Si mise in ginocchio appoggiata sui piedi. Durante la messa, la comare di battesimo che era morta le disse: – Oh comare per quale ventura ti trovi in mezzo a noi? Questa è la messa dei morti, devi uscire prima che il prete si volti e dica Pax Domini, altrimenti non potrai più uscire! La donna fuggì, ma rimase impigliata con la gonna. Per liberarsi la tagliò con un coltello. Andò a casa tutta impaurita. – Ma che è accaduto?, disse il marito. La donna raccontò i fatti. – Te l’avevo detto di non andare in chiesa!”.(9)
La cultura popolare è molto legata al malocchio e alla superstizione.
Il malocchio è l’influenza negativa e nefasta esercitata da uomini, cose, animali, in modo intenzionale ma anche involontario. La credenza attribuisce il potere all’occhio, da cui può partire l’influsso distruttivo e il male. Legato al malocchio è la figura dello jettatore, che nella cultura popolare si presenta vestito di nero, con occhiali neri; appare magro ed ha un volto triste, rassegnato. Parla di malattie e disgrazie mostrandosi preoccupato per la salute e i mali altrui. Il malocchio è attribuito allo sguardo invidioso di altre persone: perciò è legato al guardare male o guardare contro l’altro. La credenza può determinare una suggestione così forte da ingenerare, in chi ci crede, quasi una predisposizione a cercare occasioni negative o a farsi vittima di disgrazie. È di malaugurio il prete perché celebra i morti e i funerali, così come l’aprire l’ombrello in casa. Questo fatto è associato al baldacchino del prete che portava il viatico al morente. Porta male il carro funebre anche quando non è occupato dalla bara. Il frate invece porta bene, perché il questuante anticamente dava i numeri da giocare al lotto e augurava ogni bene alla famiglia. (10)
Una storia in cui la presenza delle forme di scongiuro paiono determinanti: “L’ultimo figlio che ho avuto, dice Angiulina, non l’ho tenuto mai in braccio, ma in una sediolina per neonato. Quando tornavo a casa faceva i gesti con le braccia quasi a voler reclamare di essere preso. Venne una donna e disse: – Questo è più bello di tutti gli altri tuoi figli, e lo prese in braccio. – Non lo prendere in braccio ché devo fare tante cose! E così il bambino fu tenuto per un po’ di tempo da questa donna e dalla figlia. Quando lo allattò non si accorse di nulla. Poi si recò dalla scrofa che doveva partorire e la sera disse al marito: – Cuoci due uova e mangiati un pezzo di salsiccia. Devo andare dalla scrofa per non far schiacciare i maialini. La figlia Rosalia teneva il bambino in braccio, quando perde i sensi. La figlia grida: – Mamma, il bimbo muore tra le mie braccia! Angiulina afferra il bambino e lo porta al suo petto; lo vede sbiancarsi e rimettere acqua verdastra: – Questo se non rimetteva moriva. Il medico gli trovò la febbre a quaranta ma nient’altro. – Falle fa’ l’uocchio!, consigliò il medico. Gli dovetti far fare l’occhio da nove persone. Il bambino stette bene, ma i venti maialini, tutti maschi, morirono. O dovevano morire i cristiani o i porci”. (11)
Il lupo Mannaro (licantropo) ha visto fiorire leggende e credenze. La licantropia colpisce chi dorme con il volto esposto alla luna piena, per cui il male sarebbe l’effetto negativo della luna. È la metamorfosi dell’uomo nell’immaginaria condizione di lupo. La psicopatologia colloca la licantropia nei casi di sdoppiamento della personalità (schizofrenia). Chi ne è colpito avverte la famiglia di non aprire l’uscio di casa se non ha bussato almeno tre volte: in caso contrario i lupi mannari potrebbero colpire gli stessi familiari. Secondo Pitré le sembianze del licantropo sono simili a quelle del lupo: occhi di vetro, unghie e zanne acutissime, fine odorato, crescita dei peli, forza e ferocia. Ha però paura della luce e si ferma in presenza della croce; non riesce a salire più di tre gradini e per difendersi occorre lanciargli addosso un mantello o un mazzo di chiavi. Colpisce solo gli uomini e non le donne. Chi nasce la notte di Natale può occupare questa posizione, le donne diventano streghe. Quando il bambino nasce la notte di Natale, il padre deve per tre Natale consecutivi fargli il segno della croce su un piede con un ferro rovente. L’uomo diventa in altre circostanze lupo mannaro a vent’anni: accade quando il prete pronuncia male la formula battesimale. Il licantropo ritorna nella forma umana se i familiari preparano una bacinella d’acqua dietro la porta. (12)
“Il lupo mannaro (pumpinaro) è il diavolo. Ho visto la persona che era andata a lavorare, a raccogliere fagioli … una persona grassa con la barba. Era una persona evasa. A gennaio so’ pumpinari. Quando è tornato dal lavoro ha visto uno che le correva dietro: era un lupo mannaro! Si deve mettere la scopa dietro la porta … un secchio d’acqua per non farli entrare. – Compare, non farmi scoprire! Poi diviene normale. Quando assume queste sembianze è un diavolo. Graffiava cu le unghie la porta: – Compare, fammi entrare! Si diceva che era stato punto nel palmo della mano e era diventato così”. (13)
Un essere invece benevolo è il munaciello/munacieddo. “‘U munacieddo? L’ho visto con i miei occhi. Teneva un cappelluccio rosso appuntito. Se gli levavi il cappelluccio lui lo chiedeva, ed allora dicevi: – Se mi dici del tesoro te lo do! Ma avevate paura del munacieddo? – E perché? … mi doveva indicare il tesoro… E le ombre, avevate paura la notte delle ombre? – Ma mica dovevo uscire la sera tardi?”.(14)
Tra gli animali, la civetta è associata alla strega o al demonio. Se vola verso la casa di un agonizzante, ne annuncia la morte. Il suo canto è di cattivo augurio. Se canta più volte sarà cattivo tempo, se canta tutta la notte il tempo sarà buono.
“Stavamo in campagna con mio marito e notai che una civetta cantava di giorno. – Antò, ma la civetta canta di giorno? – Canta quando le pare, rispose il marito. Posammo la motozappatrice e ci incamminammo verso casa. stavamo ritirando. Incrociammo un marito e una moglie in una macchina … – Ah, non hanno neppure suonato! Quando siamo giunti a casa abbiamo saputo che era morto il figlio di 25 anni di quella coppia. Era restato fulminato! E quella civetta ha cantato di giorno … Ciué, ciué!”. (15)
Le lucertole sono di buon augurio se hanno la coda doppia e sono ritenute le anime dei morti che desiderano visitare la loro famiglia. I serpenti e i rettili sono infatti la reincarnazione di familiari morti. Anche gli scarafaggi reincarnano i morti. Il topo bianco reincarna i bambini, quello rosso i malvagi. Questi animali in genere non devono essere uccisi.
Il mestruo ha aspetti essenzialmente negativi, legati soprattutto all’emarginazione delle donne mestruate. Si tratterebbe della paura degli uomini nei confronti della sessualità femminile e la consequenziale condanna a una minorità sociale. La donna mestruata fa annerire il lino, alterare il rame e abortire le cavalle gravide. Il potere benefico sarebbe limitato a quello della ragazza alla prima mestruazione: il panno dove è raccolto il sangue passato sul petto dell’ammalato guarisce i tumori e le crisi cardiache. Nell’antica medicina settecentesca, il sangue mestruale veniva usato per spalmare la pianta dei piedi dei malati ed attenuare le alte febbri e le malattie. La donna il cui ciclo inizia accanto al focolare produce gravi disgrazie: vanno a male i lavori domestici (realizzazione di conserve, vendemmia e lavorazione delle carni di maiale). (16)
Nel Cilento è importante anche la notte di S. Giovanni. Tra il 23 e il 24 giugno si festeggia la notte di S. Giovanni che fu decapitato da Erode Antipatro, tetrarca della Galilea. Entrodiade ne era diventata l’amante benché moglie di suo fratello. Da quell’unione nacque Salomé. Giovanni aveva sempre predicato contro quell’unione incestuosa. In Abruzzo in quella notte si attende l’apparire del sole per rilevare la particolare forma di piatto d’oro (orizzonte) su cui balza per tre volte la testa mozza di S. Giovanni (sole). La fanciulla che riesce per prima a vedere questo presagio si sposerà entro l’anno. In altri luoghi, anche nel Cilento, le fanciulle compiono riti per conoscere il loro destino e il loro sposo. (17)
Secondo la testimonianza di Filomena Natella si poneva in un bicchiere il bianco, l’albume di uovo, e dalla forma che si trovava la mattina si poteva scorgere il futuro sposo. Insomma era la notte delle giovani in cerca di conoscere il loro destino.
“Ad una ragazza che aveva sposato un vecchio vedovo, un’amica domandò: – Come hai fatto a sposare un vecchio? Ella rispose: – È stata una fortuna, perché la notte di San Giovanni dall’uovo era apparso un nano con una grande gobba”. (18)
Si crede al fine educativo di queste credenze, che tuttavia imponevano divieti e attenzione a non andare contro i dettami delle regole comunitarie. La spiegazione di certi fenomeni non doveva essere cercata, bastava ricorrere al magico, alle streghe per ottenere la spiegazione desiderata. E le storie narrate sono vicine alla realtà contadina e frutto di quel mondo in cui magia e credenze erano particolarmente diffuse ed accettate.
Note:
1. Il riferimento è alle ricerche compiute insieme al prof. Antonio Di Rienzo, a partire dalla prima metà degli anni novanta del novecento.
2. P. Martucci, A. Di Rienzo, “Identità cilentana e cultura popolare”, CI.RI. Cilento Ricerche, 1997.
3. A. Musacchio, Prefazione, in “Identità cilentana”, cit.
4. Cfr.: E. de Martino, 1948, “Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo”, Bollati Boringhieri 2017.
5. Rosaria Villano, Alfano, 5 ottobre 1996.
6. Nicoletta La Gamma, Rofrano, 12 giugno 1996.
7. Rosaria Villano, cit.
8. Filomena Natella, Alfano, 5 ottobre 1996.
9. Ivi.
10. A. M. Di Nola, “Gli aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna italiana”, Boringhieri, 1976.
11. Angiulina Guzzo, Novi Velia, 17 luglio 1996.
12. “Identità cilentana”, cit. Il riferimento è al capitolo: “Comunità e tradizioni”.
13. Giovanni Cortazzo, Alfano, 28 maggio 2001.
14. Immacolata Lancuba, Alfano 28 maggio 2001.
15. Giovanna Zito, Petina, 11 giugno 2001.
16. “Identità cilentana”, cit.; P. Martucci, “Le comunità cilentane del Novecento”, Ed. Arci Postiglione, 2005.
17. Filomena Natella, cit.
18. Ivi.
Lascia un commento