Riflessioni e spunti dal Congresso AIMS di Rimini del 5 e 6 novembre 2021, dal titolo: “La sostenibile pesantezza del conflitto”.
“L’ambiente seleziona il cambiamento strutturale nell’organismo e questo, con la propria azione, seleziona il cambiamento strutturale nell’ambiente. (…) Ma la sequenza di questi cambiamenti è determinata dalla sequenza delle interazioni. (…) Così, nel rapporto particolare di due sistemi che hanno differenti strutture e indipendenza rispetto alla loro interazione, ciascuno seleziona nell’altro la via del cambiamento strutturale che è propria dell’altro. Se questa storia di interazioni si conserva, il risultato è inevitabile. Le strutture dei due sistemi avranno storie coerenti, anche se in ciascun sistema i cambiamenti strutturali saranno determinati dalla struttura. Così, dopo una certa storia di interazioni, noi come osservatori noteremo una certa corrispondenza nelle strutture dei due sistemi, e questa corrispondenza non sarà accidentale. Al contrario, è il risultato di questa storia”. (H. R. Maturana, “Tutto ciò che è detto è detto da un osservatore”, in W. J. Thompson (a cura di), “Ecologia e autonomia. La nuova biologia: implicazioni epistemiche e politiche”, Feltrinelli, 1988, p. 88)
Felice intuizione degli organizzatori del Congresso dei Mediatori Sistemici, che hanno inteso mettere a confronto due importanti filosofi, Silvano Tagliagambe e Giuseppe Gembillo, cercando di trovare punti di convergenza per argomentare sulla mediazione nell’ambito del conflitto.
Prima ognuno per sé, e poi attraverso un dialogo ravvicinato, ognuno argomentando sulle tesi dell’altro, hanno entrambi convenuto che agendo nell’ambito di sistemi complessi ed affidandosi alle possibilità relazionali, si può ricomporre un rapporto inteso nella concezione comune in maniera antitetica: ovvero cervello o realtà, soggetto o oggetto.
L’approccio punta proprio all’evidenza di una possibile epistemologia cui possono affidarsi i mediatori, ed in particolare su termini del tipo: differenze, confini, aperture, soggettività, cioè pensare sistemico e complesso operando per il cambiamento.
Il confronto è avvenuto soprattutto attraverso la relazione di filosofia e scienza, del resto si tratta di esperti che, nella combinazione dei concetti, hanno costruito la loro lunga attività di pensiero. Il filosofo della scienza, Silvano Tagliagambe, ha svolto una relazione dal titolo: “L’intreccio virtuoso tra dialogo e conflitto”, mentre il filosofo che dirige il Centro Studi sulla complessità, Giuseppe Gembillo, ha digredito su: “La logica dell’azione reciproca e l’accettazione della contraddizione”.
Gembillo percorre l’evoluzione del pensiero sempre caratterizzato da antinomie, argomentando su Aristotele, Cartesio, Hegel, per giungere a Edgar Morin; ha soprattutto proposto argomenti critici rispetto ai classici, che ancora pervadono l’attività scientifica, matematica e fisica soprattutto, che trascura contesto e rapporto uomo/relazioni. Tagliagambe procede per concetti: conflitto, relazioni, confini, comunicazione, linguaggio, per giungere ad autori già presenti nei mediatori sistemici: Bateson, Von Foerster, Maturana e Varela, Watzlawick. Il tutto con continui rimandi al mondo scientifico e alle novità che provengono da esso, senza forse eccessivo successo, dato che l’approccio continua ad essere lineare.
Sottolineo che non si tratta di temi del tutto sconosciuti, eppure pare di intuire che si tratti piuttosto di un arricchimento e di una sistematizzazione di pensieri che possano costituire una vera e propria epistemologia da calare nella pratica degli interventi.
È necessario andare più in profondità rispetto alle argomentazioni proposte, individuando su alcune grandi tematiche una possibile chiave di lettura.
Tagliagambe ragiona sulla ricerca delle risorse e, riproponendo il passato, sostiene che attraverso il funzionamento del cervello, si può uscire da situazioni stagnanti. La connessione tra scienza e complessità è evidente, soprattutto se si considerano le approssimazioni tra le divergenze e le diversità. Il conflitto è nel dialogo e nel dialogo si può causare il conflitto, trovando spazi intermedi di intervento ed accettando pensieri diversi. È nel rapporto tra cervello ed emozioni che si cercano equilibri alternativi: qui si sofferma sul neuroscienziato LeDoux e gli studi sull’Amigdala, uno dei punti attraverso cui passa l’informazione processata dal cervello. L’argomento è: decido di agire e vedo per determinare l’azione, perché la vista mobilita l’intero cervello e non solo gli occhi. Qui il nostro riferimento è a Von Foerster (i sistemi che osservano). Tagliagambe si rivolge anche a Wittgenstein e all’immagine della corda che resiste (come nella rappresentazione dell’impatto iconico del Congresso), perché è coesione di diversi fili: propone l’esempio dell’identità, come identico, su cui ritornerà Gembillo, intesa non come filo che è tale dall’inizio alla fine, ma come somiglianza di famiglie, processo relazionale e non statico. Ad esempio, tra padre e figlio ci sono catene di somiglianze che si perpetuano, attraverso intersezioni. Costruendo nuove relazioni arricchisco la realtà ontologica, con la visione, l’immaginazione, la creatività, le stesse illusioni, che non sono false credenze. L’esempio di Otello è legato alla falsa credenza: si illudeva che la moglie lo tradisse, lo sperava forse, e perciò la uccide. L’illusione è anche risorsa per sbloccare ciò che è fermo.
Ora Tagliagambe tratta la funzione della mediazione in ambito scientifico e, riferendosi alla meccanica quantistica (non Born che restituisce il valore alla probabilità), afferma che essa non attua il passaggio alla soggettività, all’intersoggettività, agli aspetti di mediazione, anche se la scienza dovrebbe essere vita vissuta, non automatismo, non semplificazione.
Un punto centrale è legato ai tempi differenti di cogliere ciò che accade nella realtà: memoria (richiamo agli eventi passati), presente ricordato (come ricordo flessibile e dinamico, dove il passato deve essere reimparato). Attraverso la mediazione si rendono fluidi i ricordi, altrimenti si corre il rischio di intrappolarli. Infine, il futuro, come visione, capacità di predire il risultato di un’azione. Il cervello deve combinare il modello, ritornare ai ricordi e modificare, perché il DNA è una continua ricerca di variazioni. Nella nostra complessità si svolge passato, presente e futuro, in un equilibrio instabile. Ora è la coscienza a presentare emozioni nella dinamica tra pensiero consapevole ed inconscio, come processo dinamico, relazione, scarto, tra realtà e interpretazione della realtà. È la costruzione di modelli, l’astrazione di modelli. Il modello è però da intendere come strumento e forma di vita. Agamennone vive il modello mitico, quello non vero, la rappresentazione della realtà artificiale. Comunque il modello serve ad orientarsi nei problemi. Non lo si deve trasformare per avere la realtà, ma intendere solo come strumento. La mediazione rompe questo specchio (rappresentazione) e permette di uscire per affrontare la realtà. Cresciuti nel mito non c’è possibilità per il pensiero di trasformazione: se nel linguaggio si esplicita questo mito, è nella creatività che si supera con infinite combinazioni.
Durante la discussione, Tagliagambe ritorna sulla mediazione imprescindibile, perché il problema della verità è un nesso della relazione tra il dire e la realtà: anche se non abbiamo accesso diretto, al reale giungiamo attraverso la mediazione del linguaggio. E poi: nel rapporto tra cervello e realtà abbiamo sempre la relazione con l’ambiente. Non parla solo di struttura, ma di relazioni con gli altri esseri umani e l’ambiente: il connettoma, la frontiera nuova della conoscenza, dà significato all’ontologia delle relazioni, perché la relazione fa la persona umana e l’uomo è il risultato tra ciò che si forma nell’interazione, è il confine delle relazioni. Sul confine, si deve prevedere l’attraversamento. In un interessante saggio (“Epistemologia del confine”), Tagliagambe ha sostenuto: “Si tratta di due mondi, due verità, due territori diversi, separati da uno “scarto” che è necessario riuscire in qualche modo a colmare. Si ripresenta lo stesso problema di Florenskij, quello cioè di individuare lo strumento più idoneo a fungere da “cerniera tra i due territori”.
Gembillo parte dal concetto di identità, non però come perfetta uguaglianza, identico (A=A). Occorre superarlo, renderlo fluido, sistemico, complesso. È nel contatto con altri esseri viventi che si esplicita la mediazione, la relazione. È la modalità di approcciarsi alla conoscenza mettendo tra parentesi la verità con la V maiuscola. E se ci fosse anche un’identità con la minuscola, modificabile, trasformativa, attraverso il ricorso al processo storico e al ruolo soggettivo? Di soggetto e soggettivo, parla il filosofo. Si ragiona troppo in termini di sistemi consolidati, svoltando verso l’ontologia, quella rappresentata dalla scienza euclidea (Galileo, Keplero). L’atto conoscitivo, non affidato all’osservazione, è un rispecchiamento oggettivo, in cui il ruolo del soggetto non influisce. Si tratta di un oggetto senza storia.
Per Gembillo l’approccio attuale considera la causa esterna: l’esito non si può modificare, l’infinito non cambia più. Kant raggiunge tre scienze: la logica, la geometria euclidea, la fisica (come confronto con l’esterno). Con Cartesio, c’è il metodo che prevede che per conoscere dobbiamo separare, dividere le parti semplici ed alla fine abbiamo il singolo semplice. Poi rimettiamo tutto insieme per avere la conoscenza dell’intero. Cartesio, Kant e Hegel pensano agli artefatti, a ciò che i soggetti hanno fatto, perché la capacità dell’uomo è inventare dal nulla: prima abbiamo pensato e poi realizzato, attraverso un approccio complesso, in cui l’organismo vivente non può essere fatto a pezzi. Hegel mette in discussione il principio di identità aristotelica, dando una svolta rispetto alla visione causale e legata all’unicità. È la ripresa di Aristotele: l’organon è lo strumento per comunicare in maniera non ambigua: Chi sono io? Chi siamo noi? Non siamo la carta di identità, ma ciò che facciamo. La verità storica è porsi che “sono parte di tutto ciò che ho incontrato”, e così divento diverso da tutto ciò che ero prima. Attraverso mediazioni storiche, Hegel insegna che conoscere non è enunciare: la conoscenza viene dopo essere entrati in relazione e in interazione con gli altri. La storia è ricostituzione del passato, modificando il nostro modo di guardare: siamo la nostra storia fatta di conflitti, accomodamenti. Siamo immersi in un contesto in relazione reciproca, interattiva, in relazione con gli oggetti: niente può essere in stato di quiete.
Edgar Morin introduce la nuova epistemologia, che si basa sulla meta riflessione: il tutto è insieme di relazioni mettendo in evidenza il sistema interno di relazioni. Il tutto per essere capito richiede uno sguardo dall’alto. L’epistemologia se è solo discorso sulla conoscenza non permette di comprendere la differenza con la gnoseologia. È Von Foerster che individua lo stare sopra non in modo gerarchico, ma nel rapporto tra realtà e sguardo: la capacità di analizzare l’incidenza dei risultati attraverso le manifestazioni/conseguenze che provocano. È questo il guardare dall’alto.
Gembillo riprende l’ultimo volume del metodo di Morin: se nel primo storicizza l’oggetto, nel secondo parla di Maturana e Varela, nel terzo, attraverso Von Foerster, il soggetto è sistema che si autosserva. Il mediatore è storia, riflessione autocritica e meta, la riflessione dall’alto, dall’esterno su tutto ciò che facciamo. Dobbiamo riflettere ed essere noi a renderci conto che il modello classico non funziona. E lo possiamo comprendere solo andando oltre ciò che facciamo. L’epistemologia è auto e meta riflessione, mettendo in contatto soggetto e oggetto. La conclusione è che la risposta oggi non può che essere qualitativa: se vogliamo rivolgerci alla realtà dobbiamo vedere, guardando con altri occhi, non con quelli per cui siamo abituati a vedere. Non c’è un modello da seguire, ed assemblare non basta perché c’è la crescita, il cambiamento, la mediazione. Quando interagiscono gli elementi, si sviluppano esiti sempre diversi: la varietà dell’esistente dipende dall’interazione e siccome le variazioni sono tante abbiamo un’infinità di combinazioni.
Lo scambio di idee tra i due studiosi produce proprio la costruzione di una epistemologia legata alla capacità di pensare sistemico, connettendo tanti elementi per approssimarsi alla possibilità di conoscere che avviene per differenze (qui Bateson), le differenze umane e nel rapporto con l’ambiente. È lo stimolo ad operare nell’ambito della mediazione: anche se saranno molti i fili a cedere, è importante che almeno qualcuno possa continuare a resistere e a reggere la corda, attivando le risorse che nella complessità continuano ad essere infinite.
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