Cento anni fa, il 27 gennaio 1922, moriva a Catania uno dei più importanti scrittori italiani, Giovanni Verga, nato nella stessa città il 2 settembre del 1840. Dello scrittore siciliano si è rilevata la visione sociale conservatrice e la rassegnazione, il “Ciclo dei vinti”. Con il passar dei decenni però la sua figura è stata in parte rivalutata e l’attualità del suo pensiero potrebbe riguardare alcuni interrogativi: gli umili possono riscattarsi senza che il tutto si concluda in tragedia? Ci sono soluzioni alternative all’immobilismo? Alcuni personaggi verghiani non possono rappresentare almeno un tentativo di speranza?
Verga affermava che, per ottenere un po’ di serenità, non si può far altro che attaccarsi all’ideale dell’ostrica, che si basa sulla convinzione che per i deboli sia necessario rimanere legati ai valori familiari, al lavoro e alle tradizioni ancestrali, per evitare di essere divorati da quel “pesce vorace” che è il mondo esterno. In “Fantasticheria”, scriveva: “Allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dai suoi per vaghezza dell’ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo (…) il mondo, da pesce vorace com’è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi con lui. Per le ostriche l’argomento più interessante deve esser quello che tratta delle insidie del gambero, o del coltello del palombaro che le stacca dallo scoglio”.
L’idea di Verga è frutto di un pessimismo esistenziale, in cui il riscatto sociale è irraggiungibile. C’è l’impossibilità dell’elevazione del proprio essere, ed allora non occorre lasciare quello che abbiamo, perché andremo incontro alla sconfitta. Osservava e raccontava la schiettezza della vita vissuta dagli ultimi, la loro fatica, la lotta nella società. E quando l’uomo si allontana dai valori familiari, fa la fine dell’ostrica che si separa dallo scoglio e muore.
Nella Prefazione al “Ciclo dei vinti”, sostiene che chi scrive non deve intervenire perché non ha il diritto di giudicare e criticare gli eventi: usando la tecnica dell’impersonalità, si esprime una realtà di fatto, ovvero la presenza incontrastata del male nel mondo. La vita è una dura lotta per la sopravvivenza e quindi per la sopraffazione, un meccanismo crudele che schiaccia i deboli e permette ai forti di vincere: è questa la legge che nessuno può modificare perché non ci sono alternative.
I suoi romanzi ruotano intorno al progetto: “Ciclo dei vinti”, che avrebbe dovuto rappresentare la lotta per la vita nelle diverse classi sociali, a partire dai più umili. Se riesce a realizzare i due capolavori: “I Malavoglia” e “Mastro don Gesualdo”, il suo intento resta incompiuto: “La duchessa di Leyra”, che avrebbe dovuto costituire il mondo della nobiltà è solo abbozzato, mentre “L’onorevole Scipioni” e “L’uomo di lusso”, non verranno mai iniziati. Nei primi due perfezionò l’utilizzo del discorso diretto libero e i punti di vista dei personaggi (“I Malavoglia”, 1881); in “Mastro don Gesualdo” (opera elaborata attraverso tre stesure, 1884, 1888, 1889) raffigurò con distacco luoghi e paesaggi desolati, specchio della miseria umana. “I Malavoglia” furono l’avvio del progetto: è la storia di sfortunate ambizioni, quella di una famiglia poverissima di pescatori, che cerca di sottrarsi al duro e faticoso lavoro, constatando amaramente che il destino non può che produrre rassegnazione. Nel secondo, Gesualdo Motta, tra avversità di ogni sorta, circondato dalle malignità e dall’invidia, si accorge con amarezza della lontananza e dell’indifferenza di moglie e figlia.
Verga è il Verismo. Fotografava la realtà e, a differenza di Émile Zola, non la denunciava. Apparteneva alla nobiltà ed era un conservatore che rifiutava le teorie progressiste più in voga tra i letterati del tempo. Era un colonialista, nazionalista, interventista, e prima che morisse aveva guardato con simpatia a quell’impianto ideologico alla base del nascente Partito Fascista, anche se non si iscrisse ai Fasci di combattimento. Da scettico, se non proprio ateo, rifuggiva dal credere alla Provvidenza divina, anzi Dio appare quasi sempre assente nelle sue opere. Considerava vincitori i consapevoli perdenti della storia, coloro che accettano il proprio destino con rassegnazione. Era un fatalista, di quel fatalismo tratto distintivo dei siciliani.
Caratteristiche fondamentali del Verismo sono la tecnica dell’impersonalità e la tecnica della regressione, entrambe rivoluzionarie per quei tempi. Secondo la prima, le opere si “fanno da sole”, cioè senza l’intervento del narratore che deve nascondersi e non far trapelare il suo punto di vista. Abbandonando i suoi panni colti, deve “regredire” a livello di uno dei personaggi e raccontare la vicenda, come se dovesse soltanto “fotografare” la realtà.
Da tanta oggettività si sarebbe passati presto, quasi subito, nella letteratura italiana ed europea di fine ottocento e primo novecento, alla soggettività della produzione decadente, alla sublimazione dell’io ed in seguito si sarebbero delineate, col sopraggiungere della società dei consumi e della cultura di massa, quelle condizioni sociali e culturali che avrebbero fatto della letteratura un’infinità di sperimentazioni, direzioni, espressioni.
Da qualche anno, si assiste ad un fenomeno degno di rilievo: il premio Nobel per la letteratura viene assegnato ad autori che, nelle loro opere, trattano di ambienti umili, di aree depresse, di situazioni e problemi quotidiani, in un linguaggio chiaro, libero da astrattezze, vicino al parlato. Dopo più d’un secolo si è tornati a pensare che le cose della vita d’ogni giorno, come Verga aveva sostenuto, possono essere la chiave di lettura di una società che deve proprio partire da queste fondamenta, perché il progresso può essere perseguito a condizione che si affrontino temi legati alla tendenza al “vero”, al “reale”, la filosofia del positivismo, l’affermazione della scienza, la diffusione degli studi sociologici ed, in particolare, il problema postrisorgimentale e la questione meridionale. A suscitare questo orientamento è il bisogno di recuperare, almeno nell’arte, quanto si è perso nella storia e nella vita, anche se è possibile farlo soltanto nei luoghi rimasti lontani dalla modernità, esclusi dal travolgente processo di materializzazione che ha investito l’attuale società fino a privarla di ogni elemento o motivazione spirituale e morale.
Verga è stato capace come pochi di tratteggiare l’intero spettro delle passioni umane, dalla più abietta alla più nobile. Nella loro tragicità, i suoi personaggi emergono nella loro umanità fragile, che si concretizza nello strenuo istinto alla sopravvivenza che permette di tutelare i nostri affetti.
Una forma di riscatto tuttavia si ritrova nel disagio giovanile di ‘Ntoni, certamente un tentativo di uscire dall’ostrica, che si ribella all’immobilismo, alla fatica e alla povertà, all’andare avanti senza una prospettiva. Il giovane è confuso, diviso tra due mondi, alla ricerca del senso della vita. Ad ogni modo, e qui Verga lascia aperta una speranza, è Alessi l’unico personaggio che avrà successo e, evitando delusioni e lutti, riacquisterà la casa del Nespolo ed uscirà dalla condizione segnata dal destino.
Sul piano più strettamente letterario, i critici hanno individuato altri meriti di Verga. Egli, pur essendo scrittore “regionale”, è stato autore di respiro europeo, con una capacità letteraria coerente e geniale nell’applicare il canone realista dell’“impersonalità”. Inoltre, ha saputo ricondurre il mito positivista del progresso, sapendo interpretare il passaggio traumatico dal mondo arcaico e immutabile delle passioni primitive a quello moderno della ragione e dei mutamenti sociali. Infine, nelle sue opere ha saputo compiutamente raffigurare la “religione della famiglia” e la “religione della roba”, come principi ispiratori dell’agire umano.
Del resto, con largo anticipo ha affermato che il “progresso infinito” appare una brutale macina, “un fiume in piena”, da cui nessuno può salvarsi: il vincitore che oggi si impone a danno del vinto sarà schiacciato a sua volta dai vincitori di domani.
Le storie da lui rappresentate sono legate alla bramosia del meglio, il desiderio di migliorare la condizione di un individuo che vuole superare i confini sociali in cui è immerso e che costituisce la spinta verso il progresso.
Verga si è identificato con i personaggi, tanto che ha dichiarato che uomini e donne rappresentate non erano astratti e inventati, ma reali e concreti; per questo sono stati delineati in una forma asciutta e comunicativa, attraverso l’attenta osservazione del mondo circostante e dei desideri umani.
Facendo studiare lo scrittore in una prospettiva più ampia, globale diremo oggi, si può recuperare una grave lacuna che ha visto solo nel 1919 la valorizzazione della sua opera e la nomina a senatore del Regno.
Potrebbe essere questo il modo migliore per celebrare il suo centenario.
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