Il terzo mese dell’anno è Marte, il dio guerriero, ma anche del tuono, della pioggia e della fertilità. Era il primo dell’antico calendario, dominato dal padre di Romolo e Remo, i fondatori di Roma, nati dall’unione del dio con Rea Silvia. Marte, in latino Mars, è, secondo la religione romana del I secolo a.C., il dio della guerra e dei duelli. Il mese era festeggiato perché segnava la ripresa delle attività militari dopo l’inverno. Il giorno a lui dedicato era il martedì. I nomi Marco, Marcello, Martino, il pianeta Marte, il popolo dei Marsi e il loro territorio Martia Antica, l’odierna Marsica, devono appunto al dio il loro appellativo.
Il mito racconta che Giunone fosse invidiosa del fatto che Giove avesse generato da solo Minerva, senza la sua partecipazione, ed allora chiese aiuto a Flora che le indicò un fiore che cresceva nelle campagne in Etolia e permetteva di concepire al solo contatto. Così diventò madre di Marte, allevato da Priapo che gli insegnò l’arte della guerra, da qui il dio guerriero per eccellenza, in parte associato ai fenomeni atmosferici e alla natura, che rappresentava la virtù e la forza gioventù dedita alla pratica militare. Tutto ciò aveva una relazione con l’antica propensione della Primavera Sacra: i cittadini allontanavano dal territorio i giovani non appena fossero diventati adulti; Marte li accoglieva sotto la sua tutela e li proteggeva finché non avessero fondato una nuova comunità. Nella società romana assunse un ruolo molto più importante della sua controparte greca Ares, fratellastro di Atena, figlio diZeuse diEra, che prediligeva gli aspetti più sanguinari delle battaglie.
Con le calende di marzo iniziava l’anno civile romano, collegato a feste di tipo propiziatorio e purificatorio, il risveglio della natura, l’avvio delle attività, della primavera, la “mater florum”, la dea Flora. In suo onore si svolgeva una festa campestre per auspicare generosi raccolti, in cui i romani chiedevano agli dei di ottenere ideali condizioni climatiche per favorire abbondanti messe. La funzione del mese si esprimeva nelle caratteristiche che gli venivano attribuite. A marzo corrisponde la potatura della vigna, attività illustrata in molti cicli dei mesi, sia da scultori che da pittori. Oltre alla celebrazione della rinascita della natura, è anche il periodo in cui si possono realizzare attività signorili come la caccia col falcone: la stagione primaverile è anche simboleggiata con il volo degli uccelli.
A marzo c’è anche la fine dell’inverno. In tutta Italia vengono ancora organizzati i cosiddetti “Falò di San Giuseppe”, un’antica tradizione pagana che affonda le sue radici nei riti della fertilità della terra, celebrata da pastori e contadini. È il passaggio dall’inverno alla primavera: si preparava un fantoccio, spesso una “vecchia”, alla quale si appiccava poi il fuoco. In altri casi, la “vecchia” non veniva bruciata ma decorata e riempita di cibo (di solito con collane di salsiccia e arance, accompagnate da frutta secca), e in seguito tagliata: le cibarie venivano poi distribuite tra tutti i bambini che partecipavano all’evento. La doppia valenza simbolica, distruzione e rigenerazione, è proprio il passaggio tra inverno e primavera.
Il mito antico di Attis/Cibele con i suoi misteri è particolarmente suggestivo. Si tratta di un’antichissima divinità frigia che si diffuse dapprima in Grecia poi in Italia, a Roma, fino al quinto secolo d.C. Il suo culto era strettamente associato a quello di Cibele: i fedeli si autoflagellavano e si tagliavano fino a provocare una evidente fuoriuscita di sangue; talora il processo culminava con l’autoevirazione. Nella pubblicazione Folklore della Calabria, Basile riprende il mito della flagellazione e lo associa a quello del sangue: in un vecchio paese della Calabria, Nocera Terinese, il rito rappresentava proprio la morte e la resurrezione di Attis. Esso era adottato in occasione della morte e della resurrezione del Cristo.
Vediamo le varie versioni del mito. Si narra che ci fosse stato un vano tentativo di Zeus di possedere la Grande Madre; da lì sarebbe nata una figura ermafrodita di eccezionale violenza, Agdistis. Gli dei preoccupati privano quell’essere della sua parte maschile: dal sangue che esce dall’evirazione nasce un albero, il cui frutto (un melograno) è raccolto in grembo da Nana, che ne rimane gravida e dà alla luce il bellissimo Attis. Quando questi cresce, sia Agdistis che la Gran Madre se ne innamorano. Quando Agdistis si invaghisce del giovane, egli sotto un pino si amputa il pene. Secondo un’altra versione è la dea Cibele, la figlia del re di Frigia Macone, che si innamora di Attis e da lui ha un figlio: il re uccide l’uomo e lo lascia insepolto. Cibele impazzisce ed erra per le campagne. Secondo altri, Attis si invaghisce della ninfa Sangaride ed allora Cibele uccide quest’ultima tagliando l’albero al quale erano attaccati i suoi giorni; Attis per il dolore si taglia il membro in modo da non poter più corrispondere alle brame della dea. Cibele non accetta il castigo crudele e gli restituisce il membro.
Già durante il I secolo a.C. le vicende di Attis erano ben note ai Romani che credevano che la sua morte e resurrezione simboleggiasse il ciclo della primavera. A lui erano dedicate festività che si tenevano fra il 15 e il 28 marzo e celebravano la morte e la rinascita del dio. Dal suo mito l’imperatore Flavio Claudio Giuliano incomincerà a scrivere l’Inno alla madre degli dei, in cui loda Cibele e indaga sul significato filosofico della storia di Attis e della dea.
Facendo un passo in avanti, nel calendario cristiano San Giuseppe è una festività religiosa particolarmente significativa. La data del 19 marzo, in tempi recenti, ha avuto ancora più risalto poiché coincide con la “festa del papà” istituita come ricorrenza civile nel XX secolo.
La festa, nel Cilento, è molto diffusa: il suo culto a livello celebrativo e folkloristico culmina nella caratteristica processione; anticamente però si affermò la tradizione della benedizione dei pani, successivamente distribuiti ai fedeli. Sul pane venivano incise le iniziali di San Giuseppe o il simbolo della croce. Era cotto all’alba del 18 marzo, poi benedetto e donato durante la festa ai poveri e ai forestieri. Doveva essere spezzato con le mani e consumato dopo una preghiera. Anticamente un pezzo di esso e le briciole dovevano essere sparse nei campi per allontanare la pioggia e le intemperie. Nel piccolo centro di San Teodoro (Serramezzana) si conserva ancora questa tradizione. La festa in onore del santo prevede il consumo delle zeppole: quelle classiche cilentane, diverse dalle napoletane, sono ottenute con un impasto di farina e patate, poi fritte e ripassate nello zucchero. Il santo si festeggia ad Agnone, Bellosguardo, Camerota, Caprioli, Celle di Bulgheria, Giungano, San Pietro al Tanagro, Petrosa (Votiva). A San Giuseppe (Roccadaspide) si tiene la tradizionale fiera.
Dalla tradizione popolare
MARZO
(indossa un mantello da pastore ma porta la zappa e un pezzo di pane ad indicare il periodo di digiuno Quaresima e di lavoro)
Io so’ Marzo cu la mia zappetta,
mangio pane e puorri … e fatìo riuno.
Lu pecuraro chisto mese aspetta,
pe’ jettà casacche e pellezzuni.
Nun te fidà re la mia fermezza,
li mutivi fazzo re la luna:
fazzo nu juorno ‘mbusso e n’ato sicco,
campa lu povero e si fotte lu ricco!
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