Una delle parole, che oggi hanno ancora rilievo, è tempo: “Non ho tempo!”;“Il tempo non mi basta mai!”, e riconduce alla corsa affannosa, alla velocità. Da più parti si parla di lentezza e si auspica che l’uomo riprenda il senso del suo tempo, lo consideri nel suo svolgersi, nel suo rapporto con la vita. Già ne ho dato conto in altre occasioni, ora mi pare opportuno riflettere su questo concetto riprendendo in particolare Martin Heidegger.
Per definire il tempo, occorre riferirsi a molteplici discipline umanistiche e scientifiche, che si sono succedute nel corso dei millenni e sono state influenzate dal contesto storico, scientifico, sociale e culturale.
Se l’uomo si è sempre interrogato su quale fosse il vero significato del tempo, se esistesse realmente o se fosse un’illusione fittizia, una certezza è che il tempo è la dimensione nella quale si concepisce e si misura il trascorrere degli eventi, riconducendo alla distinzione tra passato, presente e futuro.
Nel 1922 ci fu un’accesa discussione tra Henri Bergson e Albert Einstein sul tempo. Quest’ultimo credeva che fosse legato al criterio della misurazione; per il filosofo invece era connesso al vissuto delle persone, era il tempo interiore, continuo, indivisibile e irripetibile, quello della coscienza, la durata interiore, l’autentica temporalità. Le intuizioni di Albert Einstein guardavano a qualcosa di sensibile ai cambi gravitazionali, fino a scavare vere e proprie buche profonde nel tessuto spazio/temporale, i buchi neri. Il tutto era relatività. Solo però riconducendo ad un approccio metafisico si potrebbe riuscire a superare una scienza astratta e priva di significato, chiudeva Bergson.
Su tali tematiche sono condotto a riflettere sullo spazio del tempo, un argomento che mi porta direttamente ad Heidegger, trattando la temporalità autentica dell’esserci, il precorrimento della sua fine (morte), la possibilità dell’autentico poter essere dell’esserci. È il concetto di tempo come temporalità e storicità dell’esserci. Se il tempo dell’essere è interpretato in base al tempo, occorre interpretare in modo nuovo il senso dell’essere come temporalità. (M. Heidegger, “Il concetto di tempo”, Adelphi, 2012, or. 1998)
Il tempo è stato associato alla misurazione matematica, alla regolarità, alla precisione, ma anche ad un tempo che rimanda ad un preciso archetipo, quello del momento, della corrispondenza tra universo e vita umana, del legame con i cicli delle stagioni, del sistema di credenze. Per Jung, spazio e tempo sarebbero capaci di influenzare il comportamento e anche la forma degli esseri viventi.
Si è parlato spesso di tempo qualitativo, legato all’esperienza e alla specifica finalità di interpretarla e darle un senso; mentre il tempo quantitativo serve all’uomo per ottimizzare il tempo disponibile, il tempo necessario allo svolgimento delle diverse attività. Alternativa alla concezione del tempo come iterazione, fu la dialettica hegeliana, il divenire articolato in tesi-antitesi-sintesi, con la prospettiva di coniugare tempo ciclico e tempo lineare.
Il concetto ha molte altre articolazioni: Zenone di Elea arriva con i paradossi (Achille e la tartaruga) a negare tempo e movimento. Parmenide individua un essere eterno (ex ternum = fuori dal tempo), mentre il tempo invece è prodotto della doxa, della comune opinione, che non è sapienza. Platone risente di questa concezione tanto che nel Timeo dirà che il tempo è l’immagine immobile dell’eternità, laddove per Aristotele il tempo misura il movimento secondo un primo e un poi, per cui lo spazio ci serve per definire il tempo. Fuori da questa dimensione c’è invece il primo motore immobile, eterno, immateriale, che i Cristiani chiamano Dio.
Agostino d’Ippona, tra IV e V secolo d.C., sembrerebbe aver linearizzato il tempo in presente, passato e futuro. Ad ogni modo, il tempo è una percezione soggettiva, cioè propria del soggetto e denominata “distensione dell’anima”, che ricorda (passato) e che spera (futuro), percezione che rivela il messaggio più profondo di Cristo.
Salto a Kant che si propone di spiegare la realtà fenomenica a prescindere dall’esperienza. Nell’Estetica Trascendentale, Kant parla di recettori o forme pure a priori di spazio e tempo. Lo spazio è il senso esterno e il tempo è il senso interno; dunque, tutto ciò che fisicamente esiste viene percepito, ordinato e strutturato attraverso spazio e tempo.
Sul tempo, la fisica quantistica è molto chiara: il tempo non esiste. L’equazione della gravità quantistica non include il tempo. Nel mondo infinitamente piccolo, sembra che il tempo non funzioni, da cui la descrizione delle cose non su base temporale, ma semplicemente sulla relazione tra di esse.
L’eterno ritorno è una teoria di Friedrich Nietzsche, riconducibile alla mitologia delle culture cosiddette primitive, che si ritrova genericamente nelle concezioni del tempo ciclico, per cui l’universo ri-nasce e ri-muore in base a cicli temporali fissati e necessari, ripetendo eternamente un certo corso e rimanendo sempre se stesso.
Sostiene Nietzsche: “Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te”. (F. Nietzsche, “La gaia scienza”, Rusconi Libri, 2017, or. 1882-1887)
L’analisi del concetto di “tempo” ha prodotto un enorme numero di riflessioni e di teorie, delineando posizioni antitetiche. Un grande problema, forse di fatto irrisolvibile, è legato al fatto che “il tempo” è un oggetto di considerazione e, contemporaneamente, va a coincidere con lo stesso soggetto considerante. Semplificando si potrebbe distinguere tra due principali accezioni di tempo: il tempo della fisica ed il tempo del senso comune. Nel primo caso, la scienza del novecento ha inteso il tempo progressivamente come un’entità dinamica, elastica e strettamente legata allo spazio. Non esistono un passato, un presente ed un futuro validi per tutti e in ogni luogo. Il tempo nel senso comune lo si può sintetizzare nel pensiero di Piaget, che scopre come il bambino acquisisca la nozione di oggetto insieme a quella di spazio, mentre la nozione di tempo è associata a quella di causalità.
A questo punto due citazioni sono pertinenti.
Kant: “Il tempo non è qualcosa di oggettivo. Non è sostanza, né accidente, né relazione, ma una condizione soggettiva necessaria, dovuta alla natura della mente umana”.
Borges: “Il tempo è la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco”.
“Il concetto di tempo”, è un’opera scritta nel 1924 da Martin Heidegger. Si tratta del testo di una conferenza tenuta a Marburgo presso la facoltà di Teologia, dove fu chiamato a parlare del rapporto tra il tempo e l’esistenza, temi che saranno sviluppati nel 1927 in “Essere e tempo”.
Heidegger considera il tempo oggettivo, il tempo della natura, cioè quel tempo che fa riferimento alle scienze fisiche e matematiche, che lo intendono come oggetto misurabile e calcolabile. Critica questa concezione, perché riduce il mondo ad oggetto misurabile, non realizzando una forma di conoscenza ma di controllo. In seguito, analizza la soggettività del tempo con riferimento alla teoria di Agostino e implicitamente a quella di Bergson. Agostino in modo decisivo riconduce il tempo alla dimensione dell’interiorità dell’io. Per Heidegger questa concezione è adeguata perché riconosce lo stretto rapporto che sussiste tra il tempo e l’esserci (modo di essere dell’essere), ma è anche inadeguata perché è parziale, limitata, poiché intende il tempo solo su un versante, quello gnoseologico.
Secondo Heidegger il tempo (Zeit) non è tempo oggettivo della scienza, né tempo soggettivo della conoscenza, ma è tempo dell’esistenza, cioè il tempo è il modo non soltanto attraverso cui l’esserci conosce il mondo, ma sceglie di esistere nel mondo. L’Essere progredisce e si manifesta all’uomo attraverso lo strumento-tempo. L’uomo e il tempo sono in teoria disconnessi, ma filosoficamente uniti da uno scopo esistenziale che si basa sulla continua conoscenza. L’esserci è il prendersi cura (Sorge) di ciò che è presente: si prende cura “nella quotidianità l’accadere del mondo se incontra nel tempo, nel presente”, e la quotidianità risponde all’avverbio ora. La quotidianità dell’esserci è quell’essere che si è; è “il tempo dell’essere-l’uno-con-l’altro-nel-mondo”. (M. Heidegger, “Il concetto di tempo”, p. 44)
Questo tempo presente viene esplicitato come una successione in cui si avverte una direzione “unica e irreversibile”. Si scoprono le tematiche legate a: irreversibilità/tempo autentico/esserci, in cui l’omogeneizzazione è conformare il tempo allo spazio, alla pura presenza. E cioè: “espellere il tempo al di fuori di sé in un presente”. (Ivi, pp. 45-46)
L’esserci impigliato nel suo presente dice: “Il passato è il non più, è irrecuperabile”, e per questo l’esserci non vede il passato. La storia è come le cose sono accadute, ma l’esserci non è esso stesso storico. È storico solo in quanto possibilità. Il ritorno, il passato è assoggettato al come: il ritorno è la coscienza ed il come è ripetibile; il passato è ritorno. Sostiene Heidegger: “La possibilità di accedere alla storia si fonda sulla possibilità secondo la quale un presente sa essere di volta in volta futuro. È l’essere dell’esserci che è la storicità stessa. La storia significa essere storico”. (Ivi, pp. 47-48)
L’esserci non è il tempo ma la temporalità (il possibile essere temporale). In tale accezione, l’esserci è il non più e la sua possibilità che va a questo non più. Quando precorre il non più si palesa come essere del suo unico destino, nella possibilità del suo unico non più. Heidegger conclude con una serie di interrogativi.
Alla domanda: cos’è il tempo?
La risposta è che il tempo è il come.
La domanda: che cos’è il tempo?, diventa: chi è il tempo? Sono io il mio tempo?
… Perché voglio trattarlo come mio. (Ivi, pp. 48-50)
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