Venticinque anni fa scompariva un grande scrittore, molto impegnato contro l’oppressione della dittatura argentina, che proponeva personaggi perdenti, tra calcio e attualità, tra cinema americano e romanzo giallo. Sto parlando di Osvaldo Soriano, giornalista e scrittore argentino (Mar del Plata, 1943 – Buenos Aires, 1997).
Troppo politicamente schierato, tra il 1971 e il 1974 non riuscì a pubblicare una sola riga. E fu allora che iniziò la sua fortuna: decise di scrivere dei racconti in cui ricostruiva la vita dell’attore inglese Stan Laurel, che si trasformarono ben presto nel celebre romanzo: “Triste, solitario y final” (1973), una struggente parodia, ambientata a Los Angeles, con protagonisti il personaggio di Chandler, Philip Marlowe, e lo stesso scrittore.
Soriano si recò dopo la pubblicazione del romanzo sulla tomba di Laurel e vi lasciò una copia del libro. Nel 1976, in seguito al colpo di Stato, abbandonò l’Argentina ed andò prima in Belgio e poi a Parigi, dove rimase fino al 1984. La pubblicazione dei suoi libri lo condusse al successo, non solo in Sudamerica ma in tutto il mondo. Morì all’età di 54 anni, vittima di un cancro ai polmoni.
È stato un grande appassionato di calcio ed ha scritto molto di sport, di campioni perdenti e vincenti, ma sempre portati a confrontarsi con i problemi dell’esistenza.
Per ricordarlo, parlo del suo romanzo più celebre. Sullo sfondo si muovono una serie di celebrità di Hollywood, da John Wayne, a Charlie Chaplin, a Jane Fonda, coinvolti nelle indagini dei due protagonisti. Marlowe aveva ricevuto l’incarico dall’attore Stan Laurel di indagare sui motivi del suo declino artistico; Soriano lo incontra perché sta scrivendo un libro sull’attore. Il detective, accompagnato dal giornalista, attraversa Los Angeles tra risse, bevute e sparatorie, senza approdare a tangibili risultati investigativi, ma esplorando un mondo tra realtà e fantasia ad un ritmo sostenuto che proietta all’interno di scene da film.
Charlie Chaplin dice all’inizio dello scritto che il cinema ucciderà solo i comici senza talento; Marlowe, che tratta in modo scostante Laurel, si diverte molto di più a vederlo nella finzione che nella vita reale. Eppure, Stan lo cerca: “Voglio sapere perché nessuno mi offre un lavoro”; e confessa di non essere riuscito ad andare al funerale dell’amico Oliver Hardy: “Ollie era parte di me. Ben presto mi resi conto che eravamo una persona sola … non potevo assistere al mio funerale”.
Marlowe è diffidente perché i famosi suscitano sempre grandi riverenze e rispetto, anche se immotivati; ha litigato con John Wayne e racconta a Soriano che Los Angeles è solo “mucchi di merda”, dove rimangono “solo quei vecchi film del ciccione e del magrolino”. Anche il giornalista argentino non è soddisfatto della sua Buenos Aires: una città grande e sporca, con quartieri miserevoli e gente che odia i poliziotti e i nord americani.
È interessante il tema della verità: Stan Laurel è in miseria ma Soriano afferma che Dick van Dyke cambia la realtà e lo mantiene sugli allori attraverso un libro che ne esalta lo status.
C’è la stessa ironia che negli altri romanzi, uno stile particolare che volge lo sguardo verso gli ultimi, in cui Soriano in punta di penna fa muovere i personaggi che vagano in un mondo che sta andando a fondo. È l’amore per il cinema, la simpatia per quegli “eroi” che ora sono sul viale del tramonto e non sanno perché si spengono le luci della ribalta. Sono perdenti che, tra poesia e tratti surreali, con grande dignità, affrontano il film della loro vita ormai ridotto al bianco e nero.
I due protagonisti entrano ed escono dai guai, in modo rocambolesco, investigano e perdono, cercano danaro e, quando sembra che la fortuna vada nella giusta direzione, sono nuovamente al punto di partenza.
Quando Chandler, in una lettera del 7 gennaio 1945, parlò del suo Marlowe, affaticato e decadente, così si espresse: “Marlowe e io non disprezziamo le classi superiori perché fanno il bagno e possiedono il denaro; le disprezziamo perché sono fasulle”. (O. Soriano, “Triste, solitario y final”, Einaudi, 2003, p. 180)
In Soriano c’è la tristezza, quella del suo esilio, e ride di essa pur nella sua tragicità. Un argentino che ha abbandonato la sua terra, una promessa del calcio, un giornalista e scrittore per caso, che mette in scena personaggi che delusi ci conducono alla realtà. Le sue storie sono la fine di un’epopea terminata, un declino che li proietta con i suoi fantasmi verso la vita reale, che fa smettere di guardare solo le illusioni che la pellicola concede per permettere di uscire dalla tristezza e da una società così funesta. Nelle pagine c’è la quotidianità, la società argentina, il maccartismo americano, la lotta delle nuove generazioni. Lo scrittore ad ogni modo consente lo stesso di ricordarsi degli attori e del loro divertimento, perché sono stati creati per questo. Traccia un hard boiled sulla scia di Chandler, con delitti sui generis, con personaggi che compiono azioni bieche, ma molto umane, tristi e soli alla fine. Qui l’autore è attore e l’attore è il personaggio, e poi tutti sono sulla scena di Hollywood: tanti credono di essere nella finzione, che è realtà. Forse l’autore preferisce gli eroi di celluloide ai tristi e decadenti attori che vivono nel reale e non sanno come comportarsi. È quello un mondo fasullo, forse amaro, ma non certamente peggiore della drammaticità dell’esistenza. Qui è una falsa realtà che si scontra con le sue costruzioni fantastiche, ma almeno meno dura della vita.
È dunque la storia inventata che fa da sfondo alla realtà delle cose: in una trama semplice si sviluppa un finale certamente molto triste.
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