“Dobbiamo metterci in cammino con la forza e la determinazione dei migranti che attraversano il deserto. Non sanno cosa incontreranno durante la traversata ma gli è chiara la meta. La nostra è un mondo nuovo senza la guerra”. (Santoro M., Non nel mio nome, Marsilio 2022, p. 126)
La frase in chiusura del volume di Michele Santoro, riporta il suo pensiero con la convinzione che “i giovani torneranno a credere di dover salvare il mondo e saranno loro a costringerci ad agire”.
Quello del famoso giornalista è un libro manifesto, con critiche aspre, considerazioni amare, ma apertura alla speranza; una critica all’informazione è prevedibile, perché troppo uniformata, e investe ormai tutte le attuali forme democratiche dell’Occidente.
Per uno strano gioco del destino ho letto quelle pagine il giorno delle elezioni politiche che hanno sancito un cambiamento non da poco nella vita politica e forse sociale del nostro Paese.
Durante quella giornata ho avvertito molta curiosità sul libro, non tanto per le posizioni intorno alla guerra in Ucraina, che mi aspettavo di trovare, quanto piuttosto per la sottolineatura delle distanze che si avvertono nella società, non solo italiana. Un dato: in Italia, sei milioni di poveri non mettono insieme il patrimonio dei tre miliardari più ricchi, che hanno più soldi del 10% della popolazione. Gli esclusi, coloro che stanno nelle periferie, che avvertono la povertà, il 50 % degli italiani scontenti e disillusi, sono altri dal modello vincente e dominante.
Santoro rileva con forza lo scostamento tra istituzioni e popolo, con dinamiche correlate: astensione dal voto e non voto per coloro che esercitano il potere. Si creano due società, con una che rappresenta il centro, le garanzie, i diritti; l’altra è invece periferia, precarietà, piazze di spaccio, immigrati. Mi pare interessante riflettere su questa dicotomia che fa perdere il senso della democrazia stessa: noi tutelati non riusciamo a comprendere, partendo dal nostro punto di vista, i problemi degli altri.
Le prese di posizione intorno alla pace rappresentano il focus dell’intera narrazione.
La tesi è di aver reagito alla forza con la forza. Partendo dall’assunto che non è bastata la seconda guerra mondiale, quando ci sono stati sessanta milioni di morti, e tutti hanno gridato: Mai più!, si continua a stare impassibili ed attendere i drammatici massacri, soprattutto l’Europa che pure è centrale nel conflitto. La presa di distanza è sul modello che ci investe: “Non siamo più abituati ad ascoltare l’altro, a comprendere il pensiero diverso dal nostro e a tenerne conto. Per combattere i dittatori stiamo finendo per assomigliargli un po’” (a p. 32).
Guerra, dunque, ma soprattutto indifferenza. La critica è netta: una parte e un’altra, le due posizioni che non si confrontano ma che vanno avanti senza alcuna ricomposizione, evitando di riflettere sull’intermedio. Mi sembra di cogliere esclusioni che diventano accentuate: questa posizione mi fa ricordare chi è escluso, chi non è dalla parte vincente. Il riferimento porterebbe a Giorgio Agamben, l’homo sacer, l’abitante che non ha un habitus e comunque fa parte di una comunità. Si tratta di ciò che non è organico alla cultura e alle istituzioni dominanti, e viene escluso, lasciato ai margini della vita.
Santoro in una parte centrale della sua riflessione entra nella questione dei servizi segreti del mondo, e di quelli russi che cercano di condizionare anche le dinamiche democratiche dell’Occidente. La sua ricerca e i suoi contatti con l’intelligence, fanno emergere che i russi: “Non sono rozzi, sono un’élite che studia il mondo e ne conosce ogni aspetto, capiscono l’Occidente molto meglio di quanto noi capiamo la Russia”. Ed ancora: “C’è sempre una lotta di potere. All’inizio intorno ai dittatori agiscono altri poteri che ne bilanciano le decisioni. Quando gli autocrati restano a lungo al comando non ammettono limiti al loro potere, si isolano e non si fidano più di nessuno, circondandosi di collaboratori che gli danno sempre ragione” (a p. 30).
L’idea di democrazia e partecipazione è apparsa sempre improcrastinabile. È intervenuta prima la pandemia e poi la guerra per modificare sostanzialmente le cose, e con l’emergenza la democrazia si è ridotta ed è cambiata la stessa percezione della vita: “Il potere politico ha scoperto di poter agire con pochi controlli e riducendo i cittadini e i lavoratori in una condizione di assoluta passività”. Oltre: “I partiti si sono autoridotti a un ruolo ancillare e la democrazia si è trasformata ufficialmente in una tecnocrazia” (a p. 60 e a p. 67).
È lo stato d’eccezione che sospende la legge e diventa la condizione normale di governabilità. Si è disposti a sacrificare praticamente tutto, le condizioni normali di vita, i rapporti sociali, il lavoro, perfino le amicizie, gli affetti, le convinzioni religiose e politiche. Gli uomini si sono abituati a vivere in condizioni di crisi e di perenne emergenza, e non sembrano accorgersi che la loro vita è stata ridotta a una condizione puramente biologica, perdendo ogni dimensione non solo sociale e politica, ma persino umana e affettiva (Agamben).
Oggi non c’è neppure il contrappeso dell’informazione, che dovrebbe essere libera di esprimersi, anche controcorrente, ponendo alcuni limiti alle tutele personali. Ed allora, nelle nostre società non si mettono a fuoco cause e rimedi rispetto ai problemi. Le questioni che si dovrebbero affrontare sono: povertà, scuola, emigrazione, medicina, giustizia, economia circolare, ambiente, energie alternative. La critica è verso la macchina globale di un apparato tecnologico, un algoritmo che raccoglie i nostri dati e ci porta a fare delle scelte.
Nelle ultime pagine, Santoro si chiede cosa fare. Partendo da giustizia e fisco, non si possono negare i diritti civili (le nostre società sono più avanti delle dispute politiche su questi aspetti), le differenze nord-sud, il lavoro nero, le questioni femminili. Una Costituente per rivedere la Costituzione, per affermare soprattutto il benessere collettivo, l’istruzione e la ricerca, la speranza di vita, l’equità, è la strada da percorrere. Tutto ciò per trovare quello che dovrebbe essere chiamato: diritto alla felicità.
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