“Vostro padre è stato uno di quegli uomini che agiscono come pensano e, di sicuro, è stato coerente con le sue convinzioni. Crescete come buoni rivoluzionari, studiate molto per poter dominare la tecnica che permette di dominare la natura, ricordatevi che l’importante è la rivoluzione e che ognuno di noi, solo, non vale nulla. Soprattutto, siate sempre capaci di sentire nel più profondo di voi stessi qualunque ingiustizia commessa contro chiunque in qualunque parte del mondo. È la qualità più bella di un rivoluzionario”.
(Ernesto Che Guevara, lettera ai figli, 1965, in: Bosetti G., Mondolfo G., Oldrini G., Che Guevara. Mito e realtà. Le idee, le immagini, l’utopia cinquant’anni dopo, Prefazione seconda edizione, Ed. Interno4, 2017, or. 1987, p. 67)
Quando il 9 ottobre 1967, 55 anni fa, i militari boliviani e gli agenti della Cia uccisero Ernesto Che Guevara erano convinti che la sua morte avrebbe causato il fallimento dell’impresa e delle idee comuniste in America Latina. Eppure non fu così, perché la scomparsa del “Che” determinò l’avvio del suo mito per le generazioni future, che si ispirarono al rivoluzionario e simbolo di tutte le lotte di liberazione dei popoli, con giovani occidentali che indossavano magliette con il suo volto e manifestavano la loro simpatia per il “guerrigliero eroico”.
Che Guevara è diventato uno dei riferimenti del Sessantotto e poi dei movimenti di rivolta successivi, fino a quello recente dei no global, che pure rifiutano l’appiattimento sulle ideologie del passato. È dunque l’unico mito rivoluzionario che resiste sia in Europa sia in America Latina ancora oggi, quando di miti si cerca di fare a meno in una società conformista ed omologata.
Diventò un eroe per il modo in cui visse e, soprattutto, in cui morì. La sua faccia è un marchio e il simbolo globale della ribellione pura, la sfida allo status quo, la lotta contro le ingiustizie. È uno dei pochi volti in grado di esprimere un messaggio simile.
Esiste un’infinità di libri ed interventi su questo personaggio; eppure un libretto mi ha colpito, ovvero la ripubblicazione a cinquant’anni dalla sua scomparsa del volume: Che Guevara. Mito e realtà. Le idee, le immagini, l’utopia cinquant’anni dopo, che riprende il libro del 1987 scritto per ricordare i vent’anni del mito. Riapro quel libretto che contiene una serie di interventi ed immagini, molte sono inedite.
Gerardo Chiaromonte scrisse che la fama del rivoluzionario era da ricercarsi nella sua “intransigenza e rigore morale”, nel rifiuto di ogni “compromesso o mediazione”; ma soprattutto l’idea che continua a balenare nella mente “dell’uomo nuovo da costruire”, della ricerca di una “filosofia morale della rivoluzione”, anche in vista di un movimento comunista e della sinistra che vivevano una profonda crisi. Un uomo da calare dentro “un progresso sociale e un rinnovamento politico”. La posizione dell’allora direttore dell’Unità era interessante per spiegare un motivo profondo che spingeva i giovani ad identificarsi con lui ed a creare negli anni il suo mito. Ha cercato di conoscere il più possibile l’uomo, in una società in cui si doveva realizzare: “l’altruismo universale, la fratellanza, una reale interrelazione tra ciò che è privato e ciò che è collettivo” (Mondolfo). Si trattava di mostrare il senso delle stesse teorizzazioni di Sartre e Marcuse, che vedevano “l’appiattimento del soggetto, reso del tutto subalterno alle esigenze di riproduzione e di allargamento del capitale” (Spinella).
In sostanza, il “Che” lottando per i popoli cercava di porre al centro proprio il soggetto, l’individuo nelle società avanzate e nelle logiche del mercato globale. Se il comunismo poneva in primis l’organizzazione del partito, ecco che quel rivoluzionario riconduceva alla portata dell’uomo le sue scelte e le cause più importanti della tradizione del movimento operaio e rivoluzionario.
Nel suo scritto, Petruccioli rilevava soprattutto l’esigenza del concetto di garibaldinismo, l’idea profonda dell’animo e del movimento popolare, che aveva segnato le generazioni passate e condizionato quelle future del nostro Paese: “Sono convinto che anche come tale lo riconobbero e lo esaltarono i giovani italiani”.
Il mito si è alimentato per una serie di ragioni, tra cui l’essere coerente con i propri ideali e pronto a morire per quelle idee, buone o cattive che fossero: eppure quelle idee, espresse nel saggio Il socialismo e l’uomo a Cuba, probabilmente oggi sono molto meno note ai suoi giovani seguaci rispetto al celebre ritratto di Alberto Korda.
È la foto del 1960, catturata d’istinto con due scatti, dopo che al fotografo il “Che” si presentò con uno sguardo affranto che esprimeva la rabbia per l’attentato alla nave Le Coubre. Si era alla vigilia dell’invasione alla Baia dei Porci e la bomba, che causò morti e feriti, serviva a sabotare l’imbarcazione che stava trasportando un carico di armi ai rivoluzionari cubani. Si svolse un comizio di Fidel Castro e Korda scattava foto ai presenti. Tra essi apparve quel volto che fu immortalato; poi negli anni successivi Giangiacomo Feltrinelli stampò quell’immagine e contribuì a diffonderla in tutto il mondo, su magliette e oggetti vari.
È la foto più riprodotta per la sua formidabile forza espressiva. Ha scritto Giorgio Mondolfo: “Quando un’immagine diventa patrimonio di un sentimento collettivo e finisce col rappresentare sogni e speranze, non è più la foto che descrive il sentimento, ma è questo che illustra e legge l’immagine”.
Il mito si consolidò nell’epoca in cui la tv sostituiva la radio come mezzo di comunicazione di massa, e nascevano la cultura pop e quella del consumismo, in cui “sei quello che indossi” e non necessariamente quello che fai.
Era la rappresentazione del senso di ribellione disinteressata di un giovane medico che percorre l’America in bicicletta, incontra la rivoluzione impossibile cubana di poveri sfruttati contro i ricchi sfruttatori. La condivide, diventa un dirigente per dare un senso internazionale alla Rivoluzione; poi lascia tutto per poter continuare a lottare contro l’oppressione di altri popoli. In seguito, giunge la seconda foto, di Che Guevara morto, nella lavanderia dell’ospedale di Vallegrande, simile per alcuni al Cristo di Mantegna. Qui il suo mito si ingigantisce: non è l’oblio della sua figura, ma la consacrazione del combattente, che è “capace dell’estremo sacrificio per tener fede alle sue idee di uguaglianza, solidarietà e riscatto” (Oldrini)
È vero che la sua fama si identificò con posizioni estreme, ma anche tanti giovani non solo di sinistra furono affascinati da Ernesto Che Guevara, che ricorreva alla violenza, quella dei guerriglieri che avevano armi, combattevano davvero, uccidevano ed erano uccisi. Lo facevano per affermare le loro idee, per inseguire un ideale rivoluzionario.
Oggi le nuove generazioni di poveri ed emarginati latinoamericani emigrano per poter scappare dalle ingiustizie e dai soprusi. Idee differenti per reagire, frutto del tempo e del contesto, di un’idea di cambiamento che oggi si chiama riforma. Il segno forte di quelle idee rivoluzionarie sono ancora presenti dopo oltre cinquant’anni, specie in America Latina, dove si continua ad onorare quel guerrigliero che probabilmente ha dato tanto alle nostre società.
Infine, riprendo il discorso di Fidel Castro, durante la veglia solenne del 18 ottobre 1967, in memoria di Ernesto Che Guevara:
“Direi che si tratta di quel genere di uomini difficili da uguagliare e praticamente impossibili da superare. Ma diremmo anche che uomini come lui contribuiscono, con il loro esempio, a creare altri uomini della stessa stirpe. (…) Era un uomo dalla vita stoica e spartana, nel cui comportamento è impossibile trovare una sola macchia. Con le sue virtù creò ciò che si può definire un vero modello di rivoluzionario”.
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