Gli italiani sono stati i protagonisti di un fenomeno, quello migratorio, che ha segnato più di una generazione pronta a lasciarsi alle spalle le miserie di una vita durissima per tentare di abbracciare un nuovo sogno.
Se negli ultimi decenni dell’ottocento l’emigrazione riguardò soprattutto le regioni settentrionali dell’Italia, nei primi due decenni del novecento la situazione si capovolse: il primato passò alle regioni meridionali, con l’esodo da tanti paesi del Cilento.
Riferendosi ad uno di essi, Ezio Martuscelli e Pina Valente scrivono un interessante volume: “Quando dal Sud d’Italia si emigrava in massa in America. Case History della famiglia Natale di Centola (SA)”, che percorre oltre cento anni di emigrazione dal nostro territorio, soffermandosi sulle vicende di una famiglia.
Partendo dalle fonti reperite in loco, la ricerca ha inteso coinvolgere anche gli oriundi italo-americani attraverso la costituzione di un network per far conoscere tra loro i parenti e metterli in relazione. Quindi, l’intento ha riguardato molteplici aspetti: conoscenza di una storia che si è svolta in un arco temporale piuttosto vasto; la possibilità di delineare per gli stessi Natale un ricco albero genealogico che ha inteso intrecciare le varie forme di parentela, dalle più semplici della famiglia originaria; infine, la ricostruzione da parte degli autori di tutto il processo intergenerazionale di integrazione nella società americana e di consolidamento attraverso le generazioni successive.
Prima di entrare nello specifico della storia, mi pare opportuno cercare di comprendere cosa rappresenta questo studio, o meglio, quali modalità di ricerca sottende, o ancora, se la rilevanza dello specifico caso possa interessare il fenomeno migratorio verso le Americhe in un ambito più esteso.
Si può asserire che la ricchezza della documentazione prodotta e la capillarità dei dettagli, di cui in seguito, possa costituire un riscontro scientifico di rilievo, ovvero la ricostruzione storica di una famiglia che estensivamente può rappresentare l’universo delle storie di emigrazione.
Passiamo all’altro elemento: cosa può essere questo lavoro ed entro quale specificità di ricerca si può collocare?
Vediamo innanzitutto cosa non è. Certamente non è un romanzo, perché la forma non è strettamente narrativa, e poi si svolge nella correttezza e precisione delle informazioni, nella verità di come i fatti si siano manifestati, con un supporto veramente ampio di documenti. Dunque non esiste creazione o fantasia a supporto di una storia vera. Non è infine solo analisi di dati, perché le lettere a corredo della ricostruzione lasciano anche spazio alle emozioni che i soli freddi riscontri statistici non avrebbero potuto rappresentare.
Nel titolo si riferisce a “case history”, di cui è ricca la letteratura. Nel volume: “Il case study nella ricerca sociale” (Carocci, 2021), Barbara Sena sostiene che un simile approccio è stato a lungo considerato un “non tema” nella metodologia della ricerca sociale. Facendo un passo indietro, si può rilevare l’affermazione del contributo delle storie di vita, influenzato dalla lezione weberiana (Max Weber, “Il metodo delle scienze storico‑sociali”, Einaudi, 2003, or. 1922), che ha chiarito molti equivoci e soprattutto ha mostrato come sia possibile il riferimento ad un tipo di approccio che è comune alla storia ed alla sociologia. Inoltre, negli Stati Uniti la ricerca sociologica in tal senso fu favorita dalla Scuola di Chicago, in cui soprattutto Park rilevò l’importanza di una metodologia non essenzialmente statistica, che poneva questioni legate alla ricerca empirica con bibliografie e storie di vita. Ciò ha interessato aspetti integrati, dagli elementi storici a quelli epistemologici, applicativi, che vedono il case study collocarsi tra i “mixed methods”. (R.E. Park, “Migrazione umana e l’uomo marginale”, in S. Tabboni (a cura di), “Vicinanza e lontananza. Modelli e figure dello straniero come categoria sociologica”, FrancoAngeli, 1991, pp. 206-207)
Opto quindi per una forma ibrida di storie di vita supportate da documenti. Non storie del tutto autobiografiche, perché c’è la mano degli autori nel trattarle: gli stessi non si affidano solo alle parole dei protagonisti, ma le contestualizzano entro una metodologia di ricerca ben precisa.
Il metodo biografico e quello autobiografico può essere un proficuo punto di convergenza tra studiosi di campi diversi, in particolare sociologi e storici, perché la metodologia delle storie di vita incontra sulla sua strada la problematica storica; e le questioni irrisolte e più discutibili nell’una sono le medesime di cui deve tener conto anche l’altra. Cito in tal senso: Franco Ferrarotti, “Storia e storie di vita”, Laterza, Bari 1981; Roberto Cipriani, a cura di, “La metodologia delle storie di vita. Dall’autobiografia alla life history”, Euroma‑La Goliardica, Roma 1987; Laura Zanfrini, “L’uso delle storie di vita nella ricerca sociologica”, Studi di Sociologia, Ed. Vita e Pensiero, Anno 37, Fasc. 1, Gennaio-Marzo 1999, pp. 55-76.
La storia delle famiglie e delle persone non può esaurirsi nella ricerca delle loro genealogie e moltissime sono le fonti che possono gettare squarci di luce sulle vicende degli individui e delle loro relazioni, in particolare quelle di migranti e soggetti marginali.
Le storie di vita sono dunque un ambito di ricerca particolarmente fecondo, e credo che il lavoro di Martuscelli e Valente si indirizzi in questa direzione, senza trascurare una comparazione di documenti e di riscontri veramente ampi e significativi.
Questa storia di emigrazione inizia nel 1901 quando Luciano Natale si reca negli Stati Uniti: nel 1907 la moglie e tre figli lo raggiungono in New Jersey. In precedenza, aveva chiamato i quattro nipoti: Bartolomeo, 1902; Giuseppe, 1903; Nicola, 1906; Luigi, 1921.
La prima generazione dei Natale negli USA svolgeva lavori umili, manuali; le generazioni successive con l’elevazione del tasso di scolarizzazione e di conoscenze compiono passaggi decisivi verso una condizione più elevata. Le professioni diventano di tipo direttivo e non mancano alcuni discendenti di quei primi immigrati che svolgono attività ben remunerate.
L’origine, di quella che potrebbe essere definita saga, è Nicola Natale e Agnese Stanziola che nascono intorno alla metà del settecento. I riscontri sono reperibili nei certificati di nascita, matrimonio e morte che attestano le dinamiche familiari nel susseguirsi delle generazioni. Il tutto fino a Luciano Natale, il primo della famiglia ad emigrare negli Stati Uniti. L’uomo che era del 1866 aveva già sposato Marianna Basile a Centola ed aveva tre figli. La sua famiglia arrivò solo dopo qualche anno. Il fratello maggiore di Luciano era Raffaele, che ebbe otto figli: di essi quattro, Bartolomeo, Giuseppe, Nicola e Luigi raggiunsero lo zio.
Il libro si sofferma su questi uomini, provenienti da Centola, e sui loro discendenti che invece nacquero e vissero tutti negli USA. Dai registri americani di immigrati, si ricostruiscono le storie dei quattro Natale, nipoti del primo emigrato Luciano, e della loro discendenza.
Lascio al lettore lo sviluppo delle interessanti vicende, non senza sottolineare il ruolo di Julia Coppola (del 1942), ancora in contatto con Pina Valente, coautrice del libro e pronipote di Nicola Natale. Julia si sofferma sulla vita americana, a partire dai nonni Bartolomeo e Giulia; traccia anche alcuni significativi ritratti della madre e del padre e della vita molto serena che hanno vissuto. Parla anche del suo matrimonio, dei suoi figli attraverso una corrispondenza frequente, oltre che con Pina, anche con gli altri Natale italiani. Le generazioni successive a quella di Julia, i figli dei figli, costituiscono riscontri attuali e molto presenti. Qualcuno di questa quarta generazione ancora si reca a Centola per visitare i luoghi d’origine dei loro antenati. Esiste anche una quinta generazione di discendenti dei Natale, nati dopo il duemila.
Di interesse poi sembra il pronipote di Giuseppe, Eric Martone, che ha studiato gli emigranti italiani negli Stati Uniti, il loro inserimento e la loro condizione. Ha dichiarato di essere orgoglioso delle sue radici italiane. Significativo è il passaggio riportato nel volume: “Una delle sfide che spesso gli immigrati italiani hanno dovuto affrontare era che erano troppo italiani per essere trattati come completamente americani, ma troppo americani per credere di essere completamente italiani”. Una sorta di limbo drammatico.
Pina Valente si reca nel 1995 negli USA, portando ai parenti i prodotti del Cilento. Contatta moltissimi discendenti della famiglia Natale e trascorre 45 giorni per lei meravigliosi con i parenti americani. Questa vicenda fa parte dell’ultimo capitolo del libro.
Negli Stati Uniti, negli anni venti del novecento erano presenti 13 milioni di immigrati, su una popolazione di 92 milioni di persone, pari al 14 %; poi c’erano 26 milioni di “americani” di seconda generazione. In considerazione che la legislazione statunitense sulla cittadinanza era basata sullo ius soli, si può affermare che circa il 40% della popolazione fosse straniera.
Gli americani erano preoccupati e divisi per l’arrivo di queste masse provenienti dai paesi più poveri dell’Europa. Le criticità erano: xenofobia; paura di ripercussioni in ambito lavorativo; preoccupazioni per la tenuta del sistema che non avrebbe retto per un ingresso così massiccio. Sull’altro versante c’erano i favorevoli: gli imprenditori fino all’inizio degli anni venti sostennero la libera immigrazione perché forniva manodopera a basso costo; i settori più progressisti vedevano negli immigrati un arricchimento per la società americana.
Gli Stati Uniti comunque furono i primi ad elaborare programmi per l’inserimento degli immigrati nella società. Il lavoro dell’accoglienza iniziava sin dal momento dello sbarco: assistenza a chi non passava l’ispezione sanitaria; aiuto per mettere in contatto gli immigrati con parenti e compaesani già arrivati in America; informazioni sulla legislazione in tema di immigrazione. Una emigrazione così elevata portò alla costituzione nelle principali città statunitensi di interi quartieri abitati da italiani, che si esprimevano nei vari dialetti dei paesi di provenienza. Una delle questioni più gravi era legata alla problematica sanitaria. I quartieri degli immigrati erano diventati focolai di malattie quali dissenteria, polmoniti e soprattutto tubercolosi. Le cure necessarie andavano oltre quelle farmacologiche: occorreva che i malati seguissero a casa norme igieniche per prevenire i contagi e che cambiassero stile di vita. Particolare attenzione venne dedicata ai bambini, a causa degli alti tassi di mortalità infantile. (Maddalena Tirabassi, “Il Faro di Beacon street. Social Workers e immigrate negli Stati Uniti (1910-1939)”, FrancoAngeli, 1990)
Alcuni anni fa, Domenico Chieffallo si aggirava nelle case dei cilentani per trovare le tracce di abbandono ma anche la ricerca del riscatto. Ha realizzato una serie di pubblicazioni su questo fenomeno, per evidenziare tre aspetti interessanti: a) la storia di vinti, coloro che non ebbero alcuna fortuna all’estero; b) la storia della massa anonima, che era riuscita ad assicurare i mezzi per il sostentamento alla famiglia; c) la storia di coloro che hanno fatto fortuna, gli emigranti di successo. In: “Sotto cieli lontani”, ha indagato proprio le capacità umane ed intellettive di questi ultimi e le circostanze favorevoli di contesto.
Mi pare di poter asserire che la famiglia Natale nel corso degli anni sia riuscita ad integrarsi nella nuova condizione e a raggiungere nelle generazioni successive un certo successo.
In conclusione, questo lavoro prende in considerazione vicende prossime agli stessi autori, Pina Valente ad esempio, con un coinvolgimento certamente anche emozionale, ma mano che la situazione si amplia e si sviluppa nelle pagine. In particolare, sono di interesse le complesse dinamiche che caratterizzano questo fenomeno, a partire dall’incontro tra culture diverse, con un approccio che permette di guardare all’immigrazione non solo come un evento che ha ripercussioni a livello individuale, ma anche nelle sue componenti pluri-generazionali. Porre al centro dell’attenzione la famiglia Natale significa “attraversare il tempo”, far sviluppare le generazioni e rilevare gli elementi che hanno caratterizzato i primi cilentani che hanno posto il loro piede sulla terra americana.
Il passaggio migratorio certamente ha implicato rottura, separazione, perdita, distacco forte, sradicamento, ma anche possibilità e opportunità di crescita e di sviluppo per le generazioni successive. Un aspetto interessante, che mettono in luce gli autori, è la cura dei legami tra chi parte e chi rimane, chi nasce lontano dal paese d’origine e chi è pronto ad ospitare gli oriundi che hanno voglia dopo tanti anni di ricercare le proprie radici.
Pasquale Martucci
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