Riflessioni ed analisi su un concetto interessante, quello di abito, abitudine, habitus, attraverso il pensiero di Pierre Bourdieu, tra l’agire del soggetto e le strutture sociali.
Nella società attuale si presta particolare attenzione ad un concetto che a lungo è stato poco considerato: quello di abito/habitus/abitudine. Eppure, nell’“Etica Nicomachea”, Aristotele lo considerava il carattere morale prodotto sia dalle nostre virtù che dai nostri vizi, aggiungendo che gli abiti sono acquisiti e non innati: si tratterebbe di inclinazioni naturali perfezionate con il comportamento/integrazione. Qui l’abitudine è esercizio/ripetizione: se ci esercitiamo ad essere coraggiosi esercitiamo la virtù del coraggio, e ciò accade nella fase che va dalla nascita alla maturità, perché poi gli abiti sono più difficili da modificare e l’età matura è meno portata a cambiare. Infatti, è l’educazione, quella assimilata da giovani, che fa acquisire ai cittadini buoni abiti.
Sull’habitus si sono concentrati i lavori di Pierre Bourdieu e della sociologia relazionale, in quanto il mondo si caratterizza per una relazione dialettica, dove ogni elemento coinvolto influisce sull’altro, “in un processo continuo”. Esso trova “il suo dispiegarsi all’interno di particolari universi e mondi sociali”, tra strutture oggettive e costruzioni soggettive, dove si relazionano beni materiali (risorse economiche norme sociali, istituzioni) e schemi mentali incorporati (comportamenti, atteggiamenti, emozioni, sentimenti). (1)
L’habitus è la capacità di vivere le situazioni; una specie di mappa dell’esistenza quotidiana, insieme di principi regolatori, di pratiche, di modi di porsi rispetto alle situazioni che si affrontano, ma è anche: “struttura strutturata e strutturante”. È struttura strutturante, in quanto organizza le pratiche e la percezione delle pratiche; è struttura strutturata, ovvero “il principio di divisione in classi logiche che organizza la percezione del mondo sociale esso stesso il prodotto dell’incorporazione della divisione in classi sociali”. (2)
L’habitus è quel faro che ci conduce, quell’istinto che ci fa prendere una strada al posto di un’altra, il senso pratico incorporato, che permette di prendere posizione all’interno del campo di gioco. È un corpo che ha incorporato le strutture immanenti di un mondo, di un campo “che struttura la percezione di quel mondo e l’azione in quel mondo”. (3)
Habitus, capitale e mezzi di differenziazione sociale sono strumenti di azione e posizionamento sociale: essi ci permettono di agire e reagire all’interno degli ambiti sociali in cui, di volta in volta, siamo coinvolti. Per sintetizzare, la realtà sociale esiste “nelle cose e nei cervelli”, “nel campo e nell’habitus”, “all’esterno e all’interno”, degli agenti. (4)
La nozione di habitus produce strategie, oggettivamente adattate alla situazione. Ad esempio, il gioco all’apparenza è razionale, eppure non è così perché il giocatore decide al di là della costruzione esperta dell’allenatore, dettata dal calcolo razionale. I giocatori si abbandonano alle intuizioni, dettate dal senso pratico, che è “il prodotto dell’esposizione durevole a condizioni simili a quelle nelle quali essi sono situati”. La conclusione è che l’habitus, come direzione di ricerca, intrattiene con il mondo sociale di cui è il prodotto una reale complicità ontologica, “principio di una conoscenza senza coscienza, di un’intenzionalità senza intenzione”. (5)
Procedendo in tal senso, il sociologo afferma che il senso pratico è “invenzione attiva inventiva”, la capacità creatrice, che è quella di un soggetto che agisce; ed allora “la nozione di habitus è un sistema di schemi acquisiti funzionante allo stato pratico come insieme di categorie di percezione e giudizio o come principi di classificazione o come principi organizzatori dell’azione”. L’agente sociale è costituito come operatore pratico di costruzione di oggetti. Sostiene: “Il sociologo scopre la necessità, la costrizione delle condizioni e dei condizionamenti sociali, fino al cuore del soggetto, sotto la forma di quello che io chiamo habitus”. (6)
L’habitus presuppone condotte/azioni orientate ad un fine, senza essere il prodotto di una strategia cosciente o di una determinazione meccanica. È il funzionamento dell’habitus, come disposizioni acquisite nelle relazioni, che diviene “efficiente e operante” quando incontra “le condizioni della sua efficacia, ossia condizioni identiche o analoghe a quelle di cui esso è il prodotto”. (7)
In altri termini, l’habitus è generatore di pratiche di un universo simile. Gli agenti si lasciano andare alla loro natura, a quello che la storia ha fatto di loro, per essere naturalmente adattati al mondo storico con il quale devono confrontarsi, “per fare ciò che è necessario, per realizzare l’avvenire potenzialmente inscritto in questo mondo in cui essi sono come pesci nell’acqua”. Le azioni non sono il prodotto di un calcolo economico razionale, ma dell’incontro tra un habitus e un campo, tra storie adattate. (8)
In un libro molto interessante di Marco Piazza (9), l’abitudine è intesa secondo tre accezioni.
a) Individualismo qualitativo. Il riferimento è all’approccio dello spiritualismo tedesco, risultato dello sforzo autocreativo: ciò che condividiamo con gli altri è lasciato da parte, perché è una scelta in contrapposizione alla routine e c’è paura e diffidenza dell’alienazione, delle abitudini.
b) Abitudini sociali. Rimosso il superfluo della vita, le abitudini, si esce dalla società per essere originali. È la vita fuori dal comune, che non considera il confronto con il sociale. La domanda è: si può vivere fuori dai costumi? Non è solo però l’individualismo a spingere fuori dall’abitudine. Il riferimento è ad Hegel, Nietzsche, Comte che si occupano del sociale.
c) Prevalenza dei modelli scientifici. È la psicologia scientifica che si combina con la tendenza individualistica. Il pragmatismo aveva creato una continuità tra abitudini mentali e motorie e le nostre abitudini possono modificarsi; è la concezione filosofica dell’abitudine, mentre il comportamentismo ha fatto delle abitudini solo routine. Oggi si riconnette l’abitudine al mentale.
Se Aristotele aveva introdotto la filosofia dell’abitudine attraverso un approccio etico, i lavori di Piazza permettono di compiere il passaggio dalle inclinazioni naturali ad una condotta etica.
Nel 1887 si affermò la teoria di James, che insisteva sulla plasticità degli esseri viventi. Plasticità del cervello sia per gli abiti motori che mentali. Il sistema nervoso cresce nei modi in cui è stato educato e gli abiti sono acquisiti nell’età della formazione e dopo i 30 anni non è pensabile modificarli. L’abitudine è il volano della società ed ogni individuo si confronta con l’abito che ha accettato. Tra Aristotele e James si avverte la possibilità di modificare le proprie abitudini grazie all’uso della ragione: è un’azione sia sul piano fisico-corporeo che mentale. Cartesio, con l’associazione delle parole alle idee, mette in discussione ciò che è appreso in maniera riflessiva: riacquisire le conoscenze attraverso una ri-abitudine razionale. Le abitudini sono sociali/collettive: è la relatività dei costumi che vanno connessi con il razionale, ed allora è necessario mantenere pochi costumi e avere un io riflessivo, consapevole. È sufficiente un solo atto ed è importante la sorpresa che accade quando l’io riflessivo si libera delle abitudini, quelle sbagliate, e tendere alle abitudini corrette. Se gli illuministi si rivolgono ai criteri razionali, è Robertson che nel 1838, ricerca l’abitudine come un lume, un’attività, uno sforzo anche rintracciabile negli istinti più oscuri. Indagare in un ambito morale, in quanto la morale è regno di libertà e rende più facili e spontanee le cose, anche se è tutto contenuto nel segreto dell’educazione. Tra Aristotele e gli altri, c’è una tradizione che cerca di trovare connessioni ontologiche sull’inclinazione. Le abitudini portano impulso a compiere le azioni (potere dei principi di azione), la propensione a fare le cose. Attualizzare un abito è un’inclinazione che sfugge alla volontà (zona intermedia tra essere e avere). Il vestito che indossiamo lo abbiamo su di noi ed è un tutt’uno con noi, come l’héxis che si risolve nell’uso. È l’abito che si modella su di noi e riguarda anche l’inorganico. L’esempio è il violinista: il violino si combina con l’archetto e attraverso l’azione del virtuoso produce un suono differente dalla volontà dello stesso autore. Eger parla nel 1880 di rapporto con la psicoanalisi, ritenendo che si manifesta alla coscienza attraverso l’azione. È la tendenza alla riproduzione, la continuità tra conscio e inconscio, volontario e involontario; è la tendenza al gioco dei fatti psichici e della conoscenza. Noi ci costruiamo puntando al trionfo del vero e del bene, che ci fa abbandonare le abitudini cattive. (10)
Qui l’habitus è inteso come condivisione di uno spazio sociale incorporato dagli individui: “un sistema di disposizioni durature e trasmissibili, strutture strutturate predisposte a funzionare come strutture strutturanti, cioè in quanto principi generatori e organizzatori di pratiche e rappresentazioni che possono essere oggettivamente adatte al loro scopo senza presupporre la posizione cosciente di fini e la padronanza esplicita delle operazioni necessarie per raggiungerli”. (11)
Dopo aver compiuto un excursus nella breve storia del pensiero, il riferimento è nuovamente a Bourdieu, che intente l’uomo come oggetto sociale e l’habitus come un sistema vivente: flessibile, con capacità di adattamento. È un principio generativo che produce improvvisazioni regolari (pratiche sociali): è tutto prodotto della storia dell’individuo, un’esperienza sociale “incorporata e interiorizzata”.
Da qui, è interessante osservare l’origine del concetto e le nuove prospettive legate a genere/violenza simbolica, a senso pratico/linguaggio, ai processi di apprendimento (attori, soggetti, riflessività). (12)
In realtà si tratta di verificare le dimensioni dell’habitus: “individuale e collettivo”, la sociologia della prassi che si è molto occupata del concetto di Bourdieu. In “Antropologia riflessiva”, il sociologo parla proprio di habitus come: “sistema socialmente costruito”; come: disposizioni “strutturate e strutturanti”; come: acquisito con la pratica e orientato verso funzioni pratiche. L’habitus contiene schemi mentali e percettivi, principi di giudizio e di valutazioni sociali. È il “sociale fatto corpo”, un “modus operandi” (inteso come modo di agire e comportarsi) che produce pratiche sociali. L’habitus è però creativo e ingegnoso, capace di produrre comportamenti nuovi in situazioni sconosciute. Ha il potenziale dell’arte (pratica) di invenzione. È la storia dell’individuo incorporata e interiorizzata, l’esperienza accumulata e il “modo di operare” ma anche il “prodotto/opera/artefatto”.
Gebauer, riprendendo gli aspetti sociologici di Bourdieu, sottolinea alcuni elementi interessanti: il carattere morale dell’uomo (il riferimento è ad Aristotele), i processi di apprendimento, il rapporto tra le abitudini individuali e il mondo sociale. L’habitus sarebbe un mondo sociale che si sedimenta nel corpo dell’individuo, che ricerca l’eccellenza, la massima dialettica: il modo in cui si formano le abitudini fa la differenza. È di rilievo il ruolo del processo di apprendimento favorito da insegnanti, genitori, cioè chi è preposto al processo. (13)
Per Gebauer l’unità di azione e atteggiamento è l’habitus. È l’intenzione della persona a compiere atti buoni e l’apprendimento è esercizio. Provare piacere nel fare un atto buono, ed allora “azione/piacere”, dirigere il piacere attraverso i canali giusti. I discenti acquisiscono l’habitus e lo mettono in pratica. Ciò accade se si tratta di un allievo ricettivo e capace di apprendere, che modella il suo “corpo naturale” secondo i valori della polis: così diventa essere umano nel suo insieme.
Per Bourdieu la società interiorizzata diviene parte integrante di una persona, guida la condotta e gli stili di vita. È importante la famiglia d’origine e l’istruzione, il gruppo di amici, perché la formazione dell’habitus è esperienza.
Alcuni elementi concettuali, riportano che: a) l’interiorizzazione della struttura è affidata ai rapporti pratici, ai modelli di percezione, al senso pratico, alla sensibilità, al gioco sociale; b) poi c’è il lato operativo, che avviene con l’allenamento del senso pratico osservando il comportamento dei giocatori. Il corpo è corpo vivente, deposito, conoscenza pratica, inculcazione e coinvolgimento attivo; c) la pratica si forma tra infanzia/adolescenza/età adulta. L’habitus è effettivo nel campo in cui si applica per mezzo del senso pratico. È la logica della pratica, la continuità, l’adattamento; d) infine, è l’emergere dell’habitus nelle persone. Con l’azione di insegnanti, genitori si sviluppa la competenza, le regole delle azioni, la situazione in quanto tale. C’è l’inclusione degli elementi dell’habitus, dove il corpo si plasma attraverso azioni autoplasmanti. È l’inclusione reciproca mondo/individuo. Si tratta di strumenti costruiti da e attraverso il mondo: sono giocatori/gioco/reciprocità; assimilazione nel corpo del giocatore per accorgersi se infrange una regola, se realizza trasgressione. Ed allora occorre agire di conseguenza. Nel doppio movimento il corpo si orienta all’esterno (mondo), che va verso il suo interno, con un’inclusione reciproca. Il corpo è esposto, plasmato dal mondo, è il processo di socializzazione; ma il corpo è anche un principio di collettivizzazione, è oggettivazione e spazializzazione. L’agente fa la comparsa e si relazione con altri agenti e si adatta agli strumenti dell’altro. Il concetto di habitus trascende tra esterno e interno. È l’héxis greco, l’equivalente all’habitus latino. (14)
Una volta formato l’habitus, il problema è di definire il rapporto tra habitus e cambiamento costruttivo. Se parliamo di un corpo socializzato, si tratta dell’accesso alla dimensione della temporalità: la conoscenza pratica, la cronologia delle preferenze, dei comportamenti. Ecco l’importanza della stessa filosofia del tempo, legata al cambiamento.
Bourdieu parlava anche dei concetti legati alla facoltà di giudizio e di gusto che possono portare al cambiamento dell’habitus. I gusti infatti funzionano in modo differente dall’insieme dell’identità personale (stili di vita). Se l’identità personale è diversa da quella sociale, quest’ultima è più radicata. Partendo dai processi soggettivi, per attuare il cambiamento è necessario allentare l’ancoraggio alle strutture sociali.
Una ulteriore riflessione porta al concetto di campo in Bourdieu. I campi sono tanti quanti gli ambiti del sociale, in cui gli agenti sono in lotta simbolica tra di loro. Essi investono in una sorta di gioco, in cui gli agenti sono competizione: chi entra nel campo instaura un rapporto che Bourdieu chiama illusio, e definisce: “la condizione del funzionamento di un gioco del quale essa è anche, almeno in parte, il prodotto”. (15) Tra le persone coinvolte c’è un accordo nascosto e tacito che implica di lottare per le cose che si giocano in quel campo. (16) Ciò perché l’azione che guida gli agenti “consiste nell’acquisire l’autorità per indicare agli altri membri la visione dominante da adottare all’interno di quel particolare campo”. (17)
Il campo ha il polo dell’autonomia (che si dota di regole di funzionamento) e dell’eteronomia (non può essere solo rivolto a se stesso, per non rischiare di implodere); dunque è dotato di aperture verso l’esterno. Il campo è lo spazio sociale, il luogo materiale e simbolico in cui viviamo quotidianamente; il capitale è lo strumento di lotta e azione sociale; l’habitus è la capacità di adattamento alle situazioni sociali. (18)
Nel campo le relazioni avvengono sulla scorta del capitale detenuto dall’agente. Significa che tutto avviene attraverso il capitale economico (risorse materiali), sociale (relazioni) e culturale (conoscenze). C’è poi il capitale simbolico, quelle risorse personali che ognuno ha dentro di sé e “che lo caratterizza socialmente”, oltre alla possibilità “di riconoscimento sociale per il quale si lotta quotidianamente”. (19)
In: Meditazioni pascaliane, Bourdieu afferma: “Il capitale simbolico assicura forme di dominio che implicano la dipendenza nei confronti di coloro che esso permette di dominare: è infatti un capitale che esiste solo nella e grazie alla stima, al riconoscimento, alla credenza, al credito, alla fiducia degli altri, e può perpetuarsi solo finché riesce a ottenere che si creda alla sua esistenza”. (20)
Un ulteriore passo in avanti è rilevato da Gebauer, che per spiegare il cambiamento introduce Kant e la facoltà di giudizio, della ragione di operare distinzioni. I giudizi sono standard, appartengono al soggettivo, tuttavia gli agenti comunicano il giudizio agli altri. C’è sempre un sensus communis, la facoltà di operare distinzioni. Lo scopo non è determinare ciò che è giusto, ma ciò che piace (ambito soggettivo), ed allora il giudizio avviene attraverso elementi distintivi (atti classificatori), piace/non piace. Questa è una distinzione significativa: quella del descrivere e classificare, utilizzata per interi gruppi sociali (stili di vita significativi). È autoidentificazione, mezzo per catturare le strutture sociali intere, oggetti e azioni in relazione a posizioni specifiche. Il gusto agisce come istinto, le sensazioni di piacere e di disgusto sono le differenze. Se Kant parlava di gusto dei sensi (gustus reflexus, lavoro empirico, riflesso), è da introdurre anche il concetto di riflessione dell’individuo gustus reflextus (riflettente, la facoltà del giudizio di agire in modo universale). Bourdieu riprende Kant per una validità non tanto universale quanto generale. Nella rappresentazione qualcosa piace, e dunque è il sé che stabilisce la distanza. Se le persone si distaccano acquisiscono una nuova percezione del sé e cambiano l’identità personale. È il mutamento dell’identità soggettiva. (21)
Note:
- Cerulo M., a cura di, in Bourdieu P., Sul concetto di campo in sociologia, Armando, 2010, pp. 19-20.
- Ivi, p. 26. Cfr.: Bourdieu P., La distinction. Critique social du jugement, Èdition de minuit, 1979, p. 191; Bourdieu P., Campo del potere e campo intellettuale, Manifesto libri, 2002, p. 19.
- Bourdieu P., Ragioni pratiche, Il Mulino, 1995, or. 1994, p. 139.
- Bourdieu P., Risposte, Per un’antropologia riflessiva, Bollati Boringhieri, 1992, pp. 94-95.
- Bourdieu P., Cose dette. Verso una sociologia riflessiva, Orthotes, 2013, or. 1987, pp. 42-43.
- Ivi, pp. 45-47.
- Ivi, p. 142.
- Ivi, 142-143.
- Piazza, Creature dell’abitudine, Il Mulino, 2018.
- Ivi.
- Bourdieu, Il senso pratico, Armando, 2005.
- Krais, G. Gebauer, Habitus, Armando, 2009, or. 2002.
- Ivi.
- Ivi.
- Bourdieu P., Le regole dell’arte, Il Saggiatore 2005, or. 1992, p. 303.
- Bourdieu P., Ragioni pratiche, Il Mulino, 1995, or. 1994, p. 136.
- Bourdieu P., Sul concetto di campo in sociologia, cit., p. 21.
- Ivi, p. 27.
- Ivi, pp. 24-25.
- Bourdieu P., Meditazioni pascaliane, Feltrinelli, 1998, or. 1997, pp. 174-175.
- Krais, G. Gebauer, Habitus, cit.
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