Riflessioni sul libro di Pasquale Carelli: “La Cella della Badessa”, L’ArgoLibro, 2022, tra atmosfere suggestive e storie di un passato che rivive ancora nelle nostre comunità.
Con grande curiosità ed interesse mi sono avvicinato a questo romanzo da alcuni definito: gothic novel, cronaca medievale, mistery, racconto fantastico, fiabesco e spirituale. Per me si tratta di un romanzo storico che tratta vicende tra la realtà, che ha effettivi riscontri documentari, e l’immaginazione delle popolazioni che ancora oggi sono legate al loro “Genius Loci”.
Innanzitutto, è da osservare il periodo storico. La realtà è il Cilento, o Celento come scrive l’autore, del 1547, lo stesso anno delle rivolte a Napoli contro l’Inquisizione che intende introdurre il viceré don Pedro Alvarez de Toledo, un uomo che ha realizzato opere per il mantenimento di quel rinascimento napoletano tanto importante negli anni precedenti, come del resto quello dell’intera Italia, che ora con gli Spagnoli vede una battuta d’arresto. Certo, hanno contribuito anche guerre ed azioni rivendicative per l’esercizio del dominio che ha visto contrapposti francesi e spagnoli.
Il romanzo si muove proprio durante il governo di don Pedro: la vita è difficile soprattutto nelle periferie, i soprusi sono sempre più evidenti, il territorio è posto ai margini. Il viceré, nei suoi vent’anni di governo, si è distinto per la repressione e la messa in discussione del potere di notabili e baroni, e per aver relegato gli umili in condizione di grande miseria. Il giudizio di Croce non è certo lusinghiero, così come quello di alcuni storici che reputano quella spagnola una dominazione che ha inciso sul carattere meridionale, evidenziandone i difetti: a partire dalle difficoltà economico-sociali si delinea un’identità costituita da sfrontatezza, spavalderia, arroganza, costumi licenziosi, linguaggio scurrile, ma soprattutto azioni denigratorie, atti e modalità comportamentali rozzi e violenti, azioni delittuose ed efferate, linguaggio volgare e corrotto. È l’antitesi all’umanesimo napoletano che nei decenni precedenti aveva reso la corte di Napoli una delle più raffinate e aperte alla cultura con l’Accademia Pontiniana voluta da Ferdinando I.
Mentre tutto ciò accadeva nella capitale, verso la metà del cinquecento nel Cilento le condizioni erano ancora più buie, con l’arrogante presenza di baroni e notabili che assoggettavano e vessavano la popolazione, perpetrando ogni sorta di delitto.
In questo contesto, si inserisce il romanzo di Pasquale Carelli, uno studioso dai molteplici interessi: innanzitutto uno storico, che consulta e maneggia con grande perizia i documenti del passato; è poi romanziere, narratore ed abile divulgatore; è infine autore teatrale. Mettendo insieme tutte queste esperienze riesce ad avere una visione complessa, d’insieme, delle cose che intende proporre al lettore.
L’ambientazione del romanzo è proprio quel Cilento meridionale, tra il monastero di San Mercurio a Roccagloriosa, i suoi dintorni, il Golfo di Policastro, per approdare sulle coste dell’alta Calabria ed infine nella capitale del Regno. Si tratta di un’epoca, intorno alla metà del cinquecento, in cui l’arretrato Cilento era in balia di prepotenti baroni, di notabili che pensavano ai loro interessi, di una popolazione inerme che trovava la possibilità di riscatto solo percorrendo vie di fuga per la soluzione dei problemi, sognando interventi sovrannaturali e forse confidando in una scienza che avrebbe potuto apportare qualche novità. I personaggi semplici si contrappongono, almeno nella fantasia, ai signorotti e nobili e, non potendoli sfidare apertamente, vivono della speranza che l’andamento della statica realtà possa essere cambiato. Su tutto si inserisce un linguaggio che l’autore rende univoco ma comprensibile, sia per l’inclito che per il colto, un dialogo incessante che serve a delineare una vita popolare, sia essa legata alla religione, oppure alle credenze e alla superstizione.
Dando un’occhiata ai personaggi, il Fratecello Jacopo è il protagonista assoluto, che incontra il mondo concreto appena esce dal suo convento e lo affronta non senza problemi. Sembra essere nudo senza la protezione del suo priore, Lamberto, che gli ha insegnato tutto e che lo abbandona forse proprio nel momento del bisogno. Eppure, la sua presenza aleggia e sembra suggerire, così come quella della badessa Marzia, oppure dare conforto nel momento del bisogno. È la proiezione dell’immaginario sociale, con tutte le sue difficoltà, angherie e soprusi, quelli di un potere arrogante ed ignorante del Baroncino Federico Carafa, che crede che la giustizia sia violare, incutere terrore, esercitare la forza. E le azioni sono coperte da un altro potere, magari più importante, quello di una chiesa che si avvia, con l’esplicita volontà del viceré don Pedro, a perseguire l’Inquisizione molto presente in Spagna e in Portogallo.
Carelli compie un percorso che sembra almeno inizialmente dare una possibilità agli umili che vogliono sfuggire alle tremende regole imposte. Il tutto intorno ad un convento di frati, impauriti che proteggono un’umile fanciulla, Sarafina, già salvata da Jacopo e dal priore. La donna, non certamente dotata delle stesse virtù, pare avere analogie con la Lucia del Manzoni, che pure sfugge al potente con l’ausilio di un frate, pure francescano. La differenza non sta nel romanzo, anch’esso storico, né in un tempo non del tutto dissimile e neppure nel rapporto potente/sottomesso: si tratta della contrapposizione tra la vita meneghina e la peste e una condizione molto più arretrata ma su cui aleggia un’analoga pestilenza: l’Inquisizione.
Il Carelli è uno studioso esperto di storia ma dimostra anche una grande conoscenza del territorio: fa incuneare nei meandri di piccoli paesi, dove c’è sempre un potente, di un’area impervia, con uno sguardo al mare, che permette al lettore di aprire l’animo e la voglia di sognare. E poi c’è il cielo e le stelle, che consentono di sperare, perché qualcuno ritiene ereticamente che la terra possa ruotare intorno al sole. E sembra che guardando in alto le cose possano andare proprio in quel verso.
Il racconto è tra storia e immaginario, tra realtà e irrealtà: umili e la loro triste condizione e racconti tramandati di fantasmi e di santi che aiutano, proprio come quell’identità che anche nel cinquecento segna la vita di questa terra.
Jacopo e Sarafina insieme si tengono per non soccombere. In una girandola di speranze e fughe, tutto appare giustificato, addirittura il senso di colpa placato grazie a segnali ultraterreni, che sia l’amore del cinguettio delle allodole, che riconduce al Santo Francesco, cui si ispira il protagonista, o il fantasma della Badessa (“da lo foco s’hàva arresascetàta l’anema morta de la badessa Marzia!”), che nella sua cella sembra invitare a compiere ciò che è del resto inevitabile. Allora ogni rimorso è placato e la vita può continuare perché si è trovato il senso di protezione e di giustificazione. Questo passaggio mi pare particolarmente interessante, perché forse tra gli umili tanti comportamenti sono sempre spiegati per via di esigenze molto più importanti: sfuggire alla morte o al destino ineluttabile, spesso favorito anche dai detrattori che vogliono sempre ingraziarsi il potere.
Un aspetto poco sorprendente per il territorio è rappresentato dalla partecipazione agli eventi, che siano religiosi e legati alla preghiera, oppure luttuosi, o ancora di festa, da parte di tutti i notabili e tanti uomini e donne provenienti dal circondario. L’autore li cita: Bosco, Torre Orsaia, San Giovanni a Piro, Acquavena, Rofrano, Laurito, Alfano, Montano Antilia, Poderia, Celle di Bulgheria, facendo ruotare persone e luoghi in una girandola di descrizioni.
Su tutto c’è il mistero: dai miracoli della badessa che fa piovere e spegnere un incendio, all’anima santa del priore, che dimostra un carisma sovraumano, ma non si può decretare santo perché non ci sono le reliquie. Carelli fa dire al suo protagonista: “ciò che la mente non può spiegare induce ad evocare un miracolo, ed è santo chi fa quei miracoli”. Questo passaggio è il senso della cultura popolare che utilizza la religiosità per spiegare gli accadimenti della vita.
Procedendo in tal senso, i personaggi potrebbero trarre la forza per sfuggire al potere e cambiare il corso degli eventi. Questo non è accettabile per i notabili: “Li muonaci se metteranno a lo posto che spetta a li baroni”, afferma il Baroncino. Ed allora non si può lasciar fare e occorre rivolgersi all’Inquisizione, utilizzando il pretesto dell’eresia di coloro che non riconoscono i dettami di una dottrina che rifugge da ogni innovazione. Che essa possa provenire dalla scienza, da quel Copernico, bandito; anzi chi legge di queste cose, o trattiene appunti eretici, deve essere imprigionato e giustiziato. Oltre ai citati, ci sono altri personaggi: la màgara; i frati domenicani, o almeno uno di loro che condivide le maraviglie di Jacopo, i pescatori calabresi che instaurano un sincero sodalizio con il protagonista, qualcuno che tende una mano: l’Infedele.
Nel romanzo ci sono vari temi interessanti, tra cui spicca il rapporto uomini/animali/natura. Il mondo naturale è rispettato: mare, stelle, onde, cielo, sole, luna, tutto proietta verso un infinito da scoprire o forse solo da sognare. Il cavallo Scialandròne è quasi umano nella sua fierezza e nella sua intelligenza; la stella caduta in mare provoca una magia che attira i pesci, così permette un buon pescato: è chiamata Bonastella. Jacopo segue un delfino che lo conduce verso la scoperta dell’ignoto. C’è però bisogno di magàre per risolvere enigmi; così come tutto ciò che non è conosciuto è chiamato stravaganzie. E di sogni che inviteranno al futuro o alla speranza di quello che verrà. Ed il finale rivelerà alcune sorprese.
L’autore offre uno spaccato di vita in cui la storia diventa minima, fatta di vicende che sfuggono all’immaginazione, anche se si tratta di storie verosimili. Un romanzo storico che emerge dalla triste condizione di genti umili sottoposte a soprusi che hanno come unica salvezza il credere nel mistero ed immaginare occasioni di riscatto.
Pasquale Martucci
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