La parola produce una serie infinita di significati che riguardano il rapporto con il pensiero, il linguaggio e la lingua, la comunicazione in tutte le sue svariate forme. Se poi consideriamo il suo aspetto strumentale, il suo uso nella società attuale, le dimensioni di questo termine crescono in maniera esponenziale ponendo in essere molti aspetti di ambiguità: pensiero e parola, verità e menzogna, giusto e sbagliato, verbale e non verbale, comunicazione e relazione, e così via.
I tanti mondi della parola sono stati affrontati in occasione del Festivalfilosofia 2023, dedicato proprio alla parola (Modena, Carpi e Sassuolo), che si è svolto da venerdì 15 a domenica 17 settembre, con quasi 200 appuntamenti fra lezioni magistrali (54), mostre e spettacoli. Come sostiene Massimo Cacciari, il logos è la parola, che può essere anche quella del discorso logico, del discorso violento, del diritto e della legge, o anche “la parola che crea, che è in essa un fare, il verbum”. Un tema vastissimo che approfondisce la centralità del linguaggio e della lingua in un’epoca caratterizzata dal dominio della comunicazione, in cui la parola risulterebbe indebolita determinando il degrado dei rapporti tra le persone.
L’edizione del 2023, dedicato a Marc Augé, l’antropologo dei mondi contemporanei, di recente scomparso, è stata strutturata per gruppi di questioni su cui si sono confrontate prospettive filosofiche plurali e talvolta in contrasto.
Il primo blocco ha riguardato il rapporto con il comune, ovvero la parola e il linguaggio come medium per generare significati condivisi. A tal proposito si sono affrontate le trasformazioni della conversazione nella nostra epoca individualizzata; il linguaggio specializzato scientifico e culturale; la responsabilità di prendere la parola sulle questioni comuni; i modi per riformulare un lessico civile che dia peso a parole valoriali spesso fraintese; il ruolo della lingua nella costruzione delle comunità; il valore di propaganda delle identità etno-linguistiche.
Il secondo raggruppamento ha inteso porre il quesito: cosa fare con le parole?, ovvero gli usi del linguaggio nelle relazioni. Nello scambio comunicativo, la parola può perdere la corrispondenza col mondo e divenire semplice fantasma di verità, strumento di inganno e mistificazione. Agendo in altra direzione, le parole sono capaci non solo di invettiva, ma anche di elogio, non solo di odio, ma anche di amore. Non è da sottovalutare il carattere antagonistico del linguaggio che può cedere alla prepotenza e alla violenza, come nei linguaggi di genere che producono una comunicazione non equa, e le politiche linguistiche nel loro rapporto con la democrazia.
Il terzo gruppo ha affidato la riflessione a: pensiero, linguaggio, mondo, con un approccio teorico in relazione allo statuto fondativo della parola e del linguaggio. Rapporto tra parole e mondo, per mostrare i complessi intrecci originari tra pensiero, linguaggio e ragione; questione del linguaggio come strumento, come forma di vita dotata di regole, come generatore di mondi e quindi di processi di cambiamento. Infine, la problematica se noi siamo linguaggio, cioè se il pensiero e la facoltà del linguaggio siano co-appartenenti, oppure se abbiamo linguaggio, se la capacità di parola sia qualcosa di non coincidente con la nostra natura, una funzione che possediamo.
Una questione centrale ha inteso riflettere su: evoluzioni e innovazioni, nell’ambito del rapporto tra natura e artificio. La parola e il linguaggio fanno emergere da un lato l’evoluzione biologica e culturale, mentre dall’altro sono immersi in processi di innovazione anche tecnologica. Sul piano scientifico, è stata mostrata la chiave evolutiva del linguaggio nella correlazione tra fiducia, creatività e apprendimento sociale, oppure nell’evoluzione neurobiologica del cervello, ma determinata da fattori culturali, ovvero l’attivazione di circuiti cerebrali specifici che presiedono all’atto della lettura, ma anche la capacità ri-combinatoria del linguaggio, espressione del cervello, come fattore rilevante per comprendere non solo l’evoluzione, ma la realtà stessa.
La relazione: scrittura e immagine, ha voluto offrire analisi sulla scrittura intesa come codice, sistema iconico e dispositivo di trasmissione, con al centro la complessa relazione tra parola e immagine. Tale comunicazione è centrale nella nostra società e nelle nostre identità collettive.
Le lezioni dei classici hanno riguardato grandi interpreti del pensiero filosofico che hanno indagato il tema “parola/linguaggio”: Aristotele (De interpretatione); Vico (Scienza Nuova); Leopardi (Zibaldone); Wittgenstein (Ricerche filosofiche); Heidegger (In cammino verso il linguaggio).
Consapevole che non è possibile dar conto di tutte le tesi, fornisco alcuni rilievi sui contributi di cui ho potuto apprezzare direttamente le argomentazioni e che racchiudo entro la tematica che ho inteso chiamare “ambiguità delle parole”. Le lingue sono, per loro natura ambigue e sfumate: una parola può avere più di una funzione o più di un significato; una frase può avere più di un significato; parole e frase possono riferirsi a più individui. L’ambiguità è in genere: fonetica, lessicale, sintattica, di scopo o pragmatica.
Il Festivalfilosofia ha stimolato tantissime argomentazioni in cui la parola è spesso utilizzata in maniera differente rispetto a ciò che vorrebbe significare. Credo che su questa questione si possa concentrare la mia attenzione.
Parto da Massimo Recalcati, che intende la parola come marchio che segna, come segno che ti resta e che tu puoi solo rivedere, rielaborare. Il riferimento è alla psicoanalisi e le sue indicazioni si riferiscono a Freud e Lacan a proposito del superamento della parola trauma, un proiettile che colpisce, ustiona, brucia, che lascia segni indelebili. Poi ci sono parole che comportano offesa, insulto, odio. La soluzione è il silenzio, una condizione che onora la parola: “senza silenzio non si ascolta e senza ascolto la parola non si onora”. Per Lacan, il superamento della parola che lascia il segno nella nostra infanzia, la parola proiettile, la parola/marchio, ci si può rivolgere ad altro, a parole che fanno rimodulare altre parole: la nostra parola “può infatti fare qualcosa di inedito di quel destino che ci è stato assegnato”.
È Ivano Dionigi che si sofferma sul termine ambiguità, facendo una serie di esempi su come le parole sono spesso usate in maniera distorta. Rispetto ad un testo sono contrastanti le interpretazioni anche in riferimento al patrimonio linguistico differente tra gli individui, che implica le differenze di attribuzione del significato che dà colui che parla e colui che ascolta. Eppure la parola è “la chiave che apre la porta al tempio del tempo”, in quanto si iscrive nella dimensione sociale e storica. E invece sembra che la parola “persegue una sciagurata autonomia, a fronte di una realtà più smaterializzata e dematerializzata”. L’indicazione è invece di valorizzare tutti i termini che hanno a che fare con il “cum” (competere = cum-petere, incamminarci insieme; comunicare = cum-munus, condividere la nostra specificità, il nostro dono), che implicano comune, relazione, ovvero gli aspetti positivi delle parole, che producono pensieri civili, etici e politici.
Sulla distorsione di questo utilizzo si inseriscono le tesi di Salvatore Natoli che intende la parola come potere di verità ma anche di inganno, menzogna. Nella comunicazione si può andare sul terreno della non verità ma per errore, senza l’intenzione; ma accade anche che si operi con intenzione, mala fede. Occorrerebbe la responsabilità della verità, perché quando parliamo abbiamo la responsabilità della conoscenza, ma anche la responsabilità della giustizia. Il problema è che non ci si affida più al giusto e all’ingiusto, ad un linguaggio che è nelle forme di vita (Wittgenstein), ma si indirizza alla quantità di dati ed informazioni. È il problema dei media, dove c’è un flusso continuo ed incontrollabile, e come sosteneva Hegel l’incremento della quantità produce la non verità. Ci si affida a tante fonti che non sono più controllabili, oltre che ad una comunicazione intesa come persuasione, un pathos contrapposto al logos, l’emozione contro la ragione. Siamo dunque sul piano non dell’errore ma dell’inganno. Diciamo che la persuasione è tema centrale, visti gli sviluppi attuali del messaggio pubblico, politico, in grado di suscitare “i moti interiori”, i “bassi istinti”, il “produrre emozioni” e far passare una non-verità.
Sulla questione della doppiezza delle parole, riferisce Maurizio Ferraris. Se pure si parte da una buona parola, ben presto ci si riferisce a tutte le sue sfaccettature. Partendo dalla doppia pelle, il titolo del suo intervento, il doppio è sempre presente: i doppi sensi, la doppia mente, il pericolo nel rapporto uomo/macchina, con l’intelligenza artificiale. La pelle è doppia perché esterna ma anche interna: a ben riflettere anche i cinque sensi sono doppi, ma anche il sesto (sensus communis, koiné aisthesis, intuizione, buon senso). Freud parlava di doppio: corteccia cerebrale = razionalità e pelle = emotività; c’è anche la doppia morte (Hegel, morte naturale e morte spirituale). In tutto questo rapporto tra doppiezza delle parole, il filosofo non si può non riferirsi anche a umano/macchine, ma le sue argomentazioni ritornano sulla prevalenza dell’umano.
A proposito di macchine, la critica feroce all’intelligenza artificiale è di Éric Sadin. Per lui è la prospettiva economica che non considera le implicazioni sociali. C’è stato un capovolgimento con l’apparizione dell’intelligenza artificiale generativa. Sono i sistemi che si aggiungono, che parleranno a noi e organizzeranno l’utilizzo della parola stessa. Questi sistemi non fanno che produrre uno pseudolinguaggio, perché la lingua affidata alle macchine è una lingua morta, un linguaggio che organizza le sue fonti nel corpus passato, producendo successioni di parole. Partono da parole e le rielaborano, sono le stesse già acquisite. Non si gioca come nel mondo simbolico del linguaggio. Gli umani hanno inventiva, il linguaggio non è probabilità schematizzata come con la tecnologia. Tutti adottano l’AI ma siamo consapevoli delle conseguenze di civiltà? Come non vedere il sistema utilitaristico che agisce sulle nostre decisioni? Come non pensare che si limitano i nostri interessi individuali? Come non riflettere sulle regole del linguaggio, il sociale, l’apprendimento? C’è qualcuno che dà istruzioni al posto nostro, con suggerimenti generalizzati e omologanti. Finiamo con il rinunciare al nostro sociale, alle relazioni per affidarci alla “lingua morta”, perché non evolutiva. Non abbiamo la capacità di creare, rinunciamo alla libertà di esseri umani. Si risponde ad interessi privati, a qualcuno che agisce per noi. Il linguaggio algoritmico è personalizzato ma non creativo, come può essere la soggettività dell’essere umano. È quello che diceva Foucault sul potere, che oggi è il potere delle macchine.
Il problema della violenza delle parole trova interprete importante in Francesca Piazza, che ha ricondotto alla violenza fisica e verbale, a partire dall’esempio omerico dell’Iliade. Due episodi: duello Ettore/Achille, in cui c’è duello verbale e fisico; poi il duello verbale e non fisico tra Achille e Agamennone. Ad ogni modo, la violenza verbale lascia cicatrici anche se il verbale non ha la stessa virulenza della violenza fisica. Argomento molto interessante: la parola ha forza violenta certamente ma è anche altro, in cui i contesti di utilizzo paiono rilevanti.
In tal senso il ragionamento non può non riguardare la violenza di genere, su cui si concentra Cecilia Robustelli. La questione è la socio-linguistica e il rapporto di subordinazione linguistica uomo/donna. Anche nelle forme espressive c’è sempre subordinazione culturale. Occorrerebbe il superamento dei rapporti di genere ed una maggior attenzione alle stesse espressioni linguistiche. Il dibattito sulla non definizione delle parole in base al genere maschile e femminile è smontato dalla Robustelli in quanto occorre puntare alla costruzione grammaticale e linguistica per la comprensione. In una non definizione si perderebbe il senso delle stesse argomentazioni linguistiche. Ad ogni modo gli sforzi vanno fatti per evitare il perpetrarsi di rapporti di dominio con prevalenza del genere maschile.
Dunque: parola nelle sue più diversificate sfaccettature, anche se resta il senso di ambiguità che caratterizza il linguaggio comune, variamente declinato e su cui si sono soffermate le mie personali considerazioni. Per superare queste derive l’unica indicazione offerta dai numerosi intervenuti è di ripartire dalla formazione per poter valutare un’informazione e nel caso smontarla recuperando il messaggio della parola, unico mezzo per comprendersi in una società difficile e complessa. E, per dirla con Alessandro Bergonzoni, recuperare il Genius logos (il genio della parola), che significa aver cura di gesti e azioni, meditazione e tutto ciò che riguarda il rapporto dell’uomo con l’altro uomo, unendo le forze e lavorando in comune.
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