Lo storico Giovanni De Luna ha scritto un volume: Che cosa resta del Novecento (Utet, novembre 2023), che chiama “piccolo libro”, forse perché affronta in meno di 200 pagine i temi principali di un intero secolo, districandosi tra le questioni con un’agilità e una scorrevolezza che rendono al lettore il piacere dell’incontro con la storia.
Si tratta di interessanti considerazioni su un secolo, definito breve, che abbiamo lasciato alle spalle, ma che ancora caratterizza le nostre analisi e i nostri riferimenti per la comprensione del mondo.
Il Novecento ha racchiuso tragedie, totalitarismi, lager e gulag, guerre, disastri, che ancora ci portiamo dietro, eppure l’intuizione dello storico è quella che esso possa ancora servire ad orientarci nel presente. Ed infatti il volume si divide in due parti: il Novecento e il dopo Novecento.
E su questa falsariga produco le mie riflessioni, soffermandomi su alcune problematiche che emergono nel volume.
Questo secolo presenta un approccio pessimistico, legato a paure, violenze, odio, il secolo dei totalitarismi; ma segnato anche dall’importanza del progresso (industrializzazione, fordismo, comunicazione, tecnologia) e dall’affermazione della democrazia, dei diritti e dell’emancipazione dell’uomo. Al centro è stata considerata la vita economica e sociale, con tutti gli inevitabili problemi ed anche con l’ingresso delle masse nella storia.
Tanti sono stati gli eventi drammatici e tragici. De Luna riferisce che, tra il 1900 e il 1993, ci sono state ben 54 guerre; inoltre l’esperienza del nazismo e i genocidi hanno posto la morte come diretta conseguenza della politicizzazione della vita, con il corpo dell’uomo funzionale al gioco delle strategie politiche. Lo sterminio degli ebrei è riconducibile alla cancellazione della nuda vita (Agamben), alla distruzione dell’essenza stessa dell’uomo accusato di esistere (Arendt): ci sono stati uomini che hanno deciso quale vita è degna di essere vissuta (totalitarismi), usando la violenza politica come risorsa per l’acquisizione del potere.
Di rilievo, nel lavoro di De Luna, la coppia: continuità/rottura, che permette di guardare il presente a partire dal passato. Ciò sembra un tema centrale che conduce alle società attuali: partendo dalla guerra, il valore della pace è apparsa come emergente dalla sofferenza, e per questo è stata proiettata e considerata come una necessità che dovrebbe caratterizzare la nostra vita. Dovrebbe però, perché anche nei primi tre decenni del duemila non sembra che pace e diritti siano acquisiti una volta per sempre. Ed allora, occorre considerare ciò che ancora rappresenta nelle nostre analisi tutti quegli elementi che ci hanno permesso di costruire e consolidare consapevolezze e ritenerle acquisite.
Nel Novecento c’è stato un parallelismo tra le forme di organizzazione politica e i mezzi di comunicazione di massa (prima carta stampata, poi televisione, oggi reti interattive). Tutto ciò ci ha indirizzato verso un approccio molto più soggettivo, con innumerevoli punti di vista, con diversificate esigenze e bisogni.
Per quanto riguarda la stessa storia, è stato necessario aprirsi a nuovi metodi di critica delle fonti e a nuove forme di narrazione, cercando di comprendere i comportamenti collettivi, i sentimenti, le coordinate dell’esperienza quotidiana degli uomini, il loro modo di percepire il tempo e lo spazio, il dolore e la morte, i sentimenti, le paure.
Le discipline scientificamente fondate si sono avvalse di tanti approcci che necessitano una visione differente, rivolgendosi a tutto ciò che riguarda l’uomo nella sua dimensione quotidiana, dalla letteratura, alla filosofia, alla sociologia, all’antropologia, alle numerose forme ed espressioni artistiche.
Eppure, dal Novecento emerge anche la fine della guerra fredda, che poi ha prodotto come stretta conseguenza quelle che lo storico chiama guerre simmetriche e asimmetriche, che significa l’ingresso del terrorismo con i suoi attentati (torri gemelle), che hanno definito i contorni del nuovo secolo, con conflitti etnici e religiosi, difesa dell’identità e della cultura con l’innalzamento di muri.
Ma è accaduto anche ciò che De Luna definisce il passaggio “dal monopolio della violenza al mercato della violenza”, con lo scopo dell’annientamento del nemico: qui si realizza l’importante passaggio da una guerra simmetrica, gestita dagli Stati nazioni, che avrebbero poi avuto la consapevolezza che alla guerra sarebbe subentrata la pace con il lavoro delle diplomazie, ad una guerra asimmetrica. In quest’ultima accezione si tratta di guerre locali, focolai di violenza che si accendono e si spengono nel mondo (l’Afghanistan è solo uno degli esempi); l’asimmetria è anche irrazionalità: terrorismo (il riferimento è all’Isis), i kamikaze, la guerra santa.
Lo storico giunge a parlare anche della guerra in Ucraina, la famosa “operazione militare speciale” di Putin. In controtendenza in questo caso ci sono elementi di guerra simmetrica (confronto tra eserciti di Stati nazionali), ma poi ci sono i tratti di guerra ai civili, con cifre sproporzionate di vittime non militari; ci sono soldati mercenari (gruppo Wagner ad esempio), che portano ad intendere una sorta di privatizzazione della guerra, ma anche movimenti di estrema destra con volontari nazisti e fascisti (battaglione Azov, ucraino).
Questo conflitto ha un forte impatto strategico complessivo, con l’apparente condizione che esso abbia rilanciato l’idea statuale novecentesca.
Altra questione riguarda i muri, differenti da quello di Berlino, con l’affermazione delle distanze e dei contrasti, per difendere la propria sicurezza da colui che scappa dalla propria insicurezza. Muri e confini sono tragici esempi di separazione, piccole patrie, una risposta identitaria intesa come chiusura contro i migranti. Che poi sarebbe una sorta di apparente controsenso: la globalizzazione è reticolo di flussi di merci e capitali, ma a ben riflettere anche di uomini e donne che si spostano alla ricerca di condizioni di vita e lavoro più soddisfacenti.
La questione continua ad essere quella dei migranti, che fanno gridare allo straniero in casa, e di conseguenza difese e chiusure contro le diversità, definendo ed incoraggiando sempre maggiori stereotipi, pregiudizi, che sono essenzialmente scarsa conoscenza dei fenomeni. Le dicotomie sono: identità/differenza, bene/male, esclusione/inclusione.
Si è sviluppato anche il populismo, l’affidarsi ad un leader carismatico che ha diretto contatto con il popolo, con la tendenza a proporre soluzioni semplici a problemi drastici. Al di fuori c’è il nemico, che va combattuto almeno con slogan e parole d’ordine, che pure costituiscono forme di estrema violenza.
È questo il tempo del rapporto che De Luna definisce una via di mezzo tra realtà e rappresentazione della realtà. La comunicazione è anch’essa violenta, con affermazione di luoghi comuni e con strumenti irrazionali che alimentano fatti con controllabili e conoscenze non fondate. Problema grande, quello dello sviluppo di media sempre più invasivi, che hanno di fatto abolito la prossimità fisica delle persone e gli scambi relazionali, con un individuo isolato nel suo spazio di vita, connesso con milioni di altri reclusi nelle loro camere, che è uno spazio ristretto ma al tempo stesso virtualmente sconfinato.
Lo storico parla anche dei risvolti inquietanti dell’intelligenza artificiale, che propone opinioni esistenti sui siti internet, “amplificando ed estremizzando giudizi che ignorano la critica storica e il dibattito storiografico”.
Tra i fenomeni più significativi di questo secolo c’è l’organizzazione scientifica del lavoro e la razionalizzazione della produzione, ma anche l’affermazione delle élite e di un cambiamento di status (economico), l’affermazione dei partiti politici, lo stato sociale e l’intervento pubblico, le comunicazioni di massa.
Non tutto però è andato secondo il percorso delineato: l’ingresso dei consumi di massa ha prodotto l’uomo consumatore, una visione antropologica della vita che non ha considerato le esigenze della natura ed ha causato non pochi disastri che oggi fanno riflettere sulla questione ambientale, determinante nei primi decenni del duemila.
La visione antropocentrica, la fiducia nella società urbana e industriale hanno lasciato spazio ad una tendenza economicistica, con il cambiamento del lavoro che si indirizza verso forme di flessibilità e di scarsa stabilizzazione, in cui prevale un individuo solo con se stesso, che sogna forme di autoaffermazione con l’abbandono di una dimensione collettiva. Si afferma il tempo dell’individualismo al posto del secolo delle masse.
Tra tutte queste evidenze, resta centrale nel Novecento la democrazia che è l’elemento più importante di questo secolo, con un’idea inclusiva: questo modello fa entrare nella propria area di influenza gli altri, con l’intuizione che la conoscenza è ciò che fonda le cose attraverso la capacità di restare legati alla prova dei fatti.
Se per Churchill, “la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle che abbiamo sperimentato finora”, non significa che essa sia un dogma, ma è un contenitore da riempire di cose buone, con senso di responsabilità. E il Novecento deve essere la partenza per “aiutare quelli che verranno dopo di noi a uscire dalla sfiducia e dal disincanto”.
Cosa resta alla fine del Novecento?
Preferisco chiudere con un punto di domanda, soprattutto perché ci saranno certamente altre analisi e discussioni a caratterizzare gli sviluppi della storia.
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