Note e riflessioni sul volume di Giuseppe Abate: “L’eredità violata”.
Atmosfere che proiettano in un tempo passato, un racconto fluido e accattivante con al centro la tradizione di una comunità che si raccoglie intorno al suo Santo Patrono per rafforzare legami e solidarietà sociale.
Tutto ciò è il romanzo: “L’eredità violata” (CPE Edizioni, 2020), scritto da un autore che osserva dal di dentro il suo paese per valorizzarne gli elementi e i tratti distintivi. Giuseppe Abate è, infatti, quel figlio che vive e rivive la memoria di un passato in cui i luoghi parlano, dove il pensiero vaga cercando i contadini che lenti e con fatica vivono la dura esistenza, quando a prevalere era la società contadina novecentesca. Il contesto è una cultura popolare simile a tante altre ma con una caratteristica precisa: la devozione del popolo a San Giovanni Battista, e di conseguenza il ritratto di gente che sembra rivolgere l’intera esistenza ad un mondo fatto di immaginario religioso e di storie che ruotano intorno ad esso.
L’eredità violata è intesa come un sacrilegio, perché tale è un’azione che intende colpire un Santo tanto venerato: compiere questo atto è un veder crollare valori tramandati e custoditi con gelosia, manifestati attraverso forme rituali che servono a conservarne la memoria.
Centrale nel romanzo è il furto della tracolla in oro del Santo Patrono, il simbolo stesso della comunità depredata della sua anima, che significa per la famiglia che la custodisce riprovazione sociale e ludibrio, e per l’intera comunità biasimo da parte dei paesi limitrofi. Far sparire la tracolla è spezzare la comunità e disonorarla, infliggere un duro colpo ad un popolo, che potrebbe piombare nella vergogna e vedrebbe segnato il suo futuro.
Da questo fatto, si dipanano scenari inediti, con i protagonisti che da investigatori, intenti ad accertare e ricostruire gli accadimenti, si muovono alla ricerca affannosa di quel simbolo che deve essere fatto indossare a San Giovanni prima della sua festa. I personaggi sono variegati: alcuni positivi e legati alla propria comunità; altri poco raccomandabili, quelli che uccidono, i pericolosi “micidianti”. Tantissimi sono da corollario perché non sospettano di quanto accaduto e si dedicano al duro lavoro quotidiano. Infine, ci sono uomini che insospettabili paiono essere ancora più pericolosi.
Abate narra la vicenda con ritmo veloce: traccia uno scenario comunitario in cui gli uomini si rispettano e si salutano, si cercano soprattutto nei momenti di non lavoro, quando si saldano amicizie e si condividono aspetti di vita sociale giocando a carte nella taverna. Poi, accade che umili contadini, insieme a più ricchi signori, attendono le occasioni di festa per un’asta, un premio, una occasione per potersi divertire. La descrizione di queste vicende produce un racconto che avvince e che viene vivificato dagli scambi di personaggi che seppur immaginari sono quelli reali, perché simili e rappresentativi di una società mirabilmente descritta.
È una di quelle storie che si ascoltavano intorno ai camini nelle sere d’inverno; è la proposizione di una cultura popolare tra lavoro e momenti di stasi che caratterizzava la vita delle genti cilentane. Il Cilento è reso visibile grazie ai luoghi che ritornano in chi li ha vissuti, ma anche a coloro che non li conoscono e devono orientarsi nella lettura del libro per contestualizzare bene le dinamiche del racconto.
La devozione religiosa, il ritorno dalle campagne per la festa di San Giovanni Battista, che inizia in verità molto prima con la ritualità delle novene, vede i Santi protagonisti della tutela di una comunità che sembra quasi liberarsi con il loro aiuto dagli stenti e dalla fatica.
L’autore descrive con dovizia di particolari tutto ciò che ruota intorno a quella festa, che propone almeno due momenti suggestivi: da un lato il sacro rituale che propone la vita e la morte del Santo con la recitazione dello scontro tra Angelo e Diavolo; dall’altro il Volo dell’Angelo con un bambino che canta le nove quartine dedicate al Santo Patrono e depone un fascio di fiori per glorificare la sua grandezza.
In una delle pagine del romanzo l’autore traccia il senso del rapporto tra Eredita e il suo Santo:
“Quella statua in legno mi attraeva e mi incuriosiva ogni volta che le poggiavo gli occhi addosso. Sembrava che, in ogni occasione, mostrasse un particolare nuovo mai notato prima. Anche lo sguardo del Santo pareva mutare espressione. Mi trasmetteva sensazioni di forza d’animo, di passione e carisma. Non saprei spiegare il perché, ma era forse l’imponenza del braccio destro alzato con le tre dita puntate verso il cielo, oppure la decisione con la quale la mano sinistra puntava il bastone nel terreno o quello sguardo cupo e profondo che lo scultore aveva scalfito nei suoi occhi”.
Tutto il libro gioca sul rapporto tra tradizione e cambiamento, anche se quest’ultimo sembra assumere i connotati di uno sviluppo senza regole e legato al perseguimento dei fini con mezzi poco leciti. Occorre espropriare la gente dei suoi simboli e della sua terra: perdendo la protezione del Santo tutto sarà diverso, la comunità si sgretolerà e le persone andranno via lontano, emigreranno e lasceranno il territorio all’arricchimento dei potenti.
È, quello di Giuseppe Abate, un tributo che con intensa passione rivolge al suo paese e alla sua tradizione che si mantiene viva nonostante il passar del tempo. Il monito finale è che ogni luogo, ogni comunità, senza la sua storia e la sua identità, rischia irrimediabilmente di perdersi e di non avere alcun futuro.
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