Mediare i conflitti è la ragione che spinge l’uomo a sopravvivere nelle complesse società, che oggi si caratterizzano per un approccio pessimistico, legato a paure, violenze, odio, guerre.
E ciò nonostante il progresso (industrializzazione, comunicazione, tecnologia) e l’affermazione della democrazia, dei diritti e dell’emancipazione dell’uomo, che sono le forme a cui le società dovrebbero aspirare. Al centro è invece posta la vita economica e finanziaria, con tutti gli inevitabili problemi che comportano spesso il ricorso ad azioni drammatiche e tragiche, che comportano la distruzione dell’essenza stessa dell’uomo, usando la violenza politica come risorsa per l’acquisizione del potere.
Per realizzare una convivenza democratica è indispensabile l’opera di mediazione dei conflitti, ovvero la presenza di un terzo imparziale che si pone in maniera equivicina alle parti che hanno abbandonato la capacità di convivere e di riconoscere la presenza gli uni e degli altri.
Georg Simmel nella sua intera proposta teorica affronta i temi dell’azione reciproca come fattore strutturante della realtà sociale, l’approccio formale allo studio della società, la funzione integrativa del conflitto. In quest’ultimo caso, il riferimento è alla figura del mediatore che si colloca entro i caratteri interazionali e reciproci dei rapporti sociali. (1)
Egli si pone nella relazione tra le parti coinvolte che aspettano un suo intervento e un determinato comportamento, ovvero quello di essere terzo rispetto alle dinamiche conflittuali.
Per entrare nella logica di Simmel, gli aspetti della mediazione si caratterizzano per la forma e il contenuto, anche se forma e contenuto sono comunque elementi interrelati. Si realizza una triade, l’unità sociologica che può generare dinamiche sociali differenti non certamente riconducibili ad una delle parti, ma qualitativamente relazionali. Ampliando il discorso si determinano anche formazioni sociali più ampie, reti sociali, nella prospettiva di possibili ed infinite configurazioni.
Il mediatore ha la funzione di imparziale all’interno della relazione conflittuale, offrendo la possibilità di uscire dal contrasto assoluto, per far sì che si superi il concetto di massimizzazione dell’interesse di una o dell’altra parte e si trovino soluzioni che in genere vengono definite win-win. Per Simmel la mediazione non è solo nella struttura ma anche nel risultato: l’intervento del terzo consente “di far uscire da un riduttivo faccia a faccia i due soggetti contrapposti all’interno di una dinamica conflittuale”. (2)
Il primo assunto da cui partire è il conflitto che supera la prospettiva patologica e assume al contrario connotazione fisiologica se non addirittura positiva. Secondo questa visione si tratterebbe di dissonanza di molteplici manifestazioni (elemento interattivo, cooperativo) piuttosto che di fallimento. Il conflitto adempie funzioni sociali tanto quanto la cooperazione: chiaramente ci si riferisce ad un certo grado di conflitto che potrebbe assicurare la persistenza del gruppo; la dissonanza è se lo stesso si basa su odio, invidia, avidità.
Dal momento che Simmel si occupa di conflitto formale, si può cogliere dal contrasto non la fase dissociativa ma quella costruttiva. È considerato l’effetto della socializzazione indotta dal contrasto, che “obbliga i protagonisti ad andare l’uno di fronte all’altro, ad avvicinarsi l’uno all’altro”. È un processo di trasformazione degli individui, un modo di entrare in relazione, perché nella vita quotidiana “il conflitto tra due individui può facilmente modificare uno dei due, non solo nella relazione con l’altro ma anche in se stesso”. (3)
L’indicazione è però di assumere il contrasto come connotazione positiva, a patto che l’antagonismo e la contrapposizione entrino in una dinamica relazionale. Anche in questo caso è la forma e non le cause in sé che fanno compiere l’integrazione. Occorre accettare le forme, che significa subordinazione alle leggi e riconoscimento delle parti: è chiamato “conflitto giuridico su larga base di unitarietà e di concordanza tra nemici”. Le parti di una trattativa devono riconoscere le norme vincolanti che le legano. Siamo sul terreno del riconoscimento normativo. (4)
Oggi tuttavia ci sono anche conflitti non negoziabili, che partono dalla frammentazione e divisione politica e morale e sono al di fuori di ogni relazione; viene meno il riconoscimento di un terreno comune su cui confliggere; viene a mancare la spinta integrativa e costruttiva.
Dunque, viene meno la mediazione che Simmel intendeva con la presenza di un terzo che consente la trasformazione della relazione conflittuale: per il sociologo se la mediazione è semplice nel suo funzionamento, è altrettanto rigorosa nelle regole che la rendono percorribile. Del resto, il mediatore non è colui che impone l’accordo, bensì colui che permette alle parti la libertà di riconoscersi liberamente e comprendersi reciprocamente, ristabilendo una comunicazione che non necessariamente comporta la risoluzione del conflitto. Ed infatti, il ruolo del terzo imparziale è di ascoltare e non giudicare le ragioni dei contendenti, le modalità che hanno determinato il loro confliggere.
Il mediatore restituisce anche le ragioni dell’uno o dell’altro e, attraverso la narrazione e la riformulazione, permette “una sorta di reificazione del conflitto che perde, almeno parzialmente, la sua coloritura emotiva”. (5)
Se si può sintetizzare, il mediatore di Simmel porta alla luce le forme e lascia cadere i contenuti. Diventa essenziale l’interazione che viene a crearsi grazie alla presenza del terzo imparziale. Conclude: “l’esistenza dell’imparziale serve alla sussistenza del gruppo”; il mediatore è come il “rappresentante dell’energia intellettuale di fronte alle parti momentaneamente dominate più dalla volontà e dal sentimento egli li integra, per così dire, nella completezza dell’unità psichica che abita nella vita del gruppo”. (6)
Il mediatore può fungere da guida quando l’antagonismo dei contendenti paralizza le stesse forze che determinano l’interazione e la funzionalità di un gruppo.
Note:
- G. Simmel, Il mediatore, Armando, 2014.
- Ivi, p. 15.
- Ivi, pp. 17-18.
- Ivi, p. 18.
- Ivi, p. 23.
- Ivi, p. 49.
In riferimento all’articolo, c’è stato uno scambio di riflessioni con il prof. Michael Shano, di cui voglio rendere conto ai lettori.
[22/5, 12:39]
Michael Shano: Caro Pasquale ho letto questa sintetica esposizione della discussione di Simmel sul ruolo formale del mediatore di conflitti tenendo presente la consapevolezza diretta e il ricordo delle mie esperienze concrete nelle lotte non violente per il superamento del razzismo istituzionalizzato negli Stati Uniti nei primi anni ’60, e più tardi negli anni ’60 del movimento non violento per il diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare in Italia che fu contrastato dai cappellani militari cattolici ufficiali, proprio nel periodo in cui i primi cattolici non volevano accettare il carcere per le loro scelte di coscienza. Passo dopo passo nell’esposizione mi sembrava di trovare accordi armoniosi e gandhiani soprattutto con i richiami alle norme condivise dei valori comuni dell’umanità. Non voglio essere pignolo, ma penso sia importante fare chiarezza. Nelle ultime due frasi conclusive del testo la parola “gruppo” è diventata ambigua, e per due motivi: significa ciascuna o una delle parti contendenti, oppure il significato di “gruppo” è riferito all’insieme delle parti pluralistiche e contendenti? Simmel si riferisce all’unità psicologica di entrambi i gruppi che realizzano una convivialità o ad una delle parti in conflitto? Guardando indietro a quanto realmente accaduto, l’“unità psichica” o i valori condivisi nel conflitto erano principalmente limitati al gruppo non violento. Le leggi sono cambiate e le istituzioni sono state modificate, ma il razzismo e i valori della supremazia bianca sono rimasti virulenti. Né l’opinione pubblica italiana ha preso una posizione chiara sulla guerra chiamandola “mantenimento della pace”. Quindi, anche se la teoria di Simmel, così come presentata, distingue chiaramente l’importanza di separare la forma dal contenuto e l’importanza del ruolo di non imporre una soluzione per la convivialità che salvi le identità di ciascun gruppo, alla fine provo una sensazione di ambiguità.
[22/5, 12:58]
Pasquale Martucci: Grazie Michael per aver inquadrato bene la questione. Il gruppo è un concetto sociologico ambiguo per sua natura. Pensa che ho fatto un esame sulla sociologia dei gruppi, che costituiscono tantissime sfaccettature. Quale gruppo?, ti chiedi. E non è problema da poco: vedo di porlo in modo diverso. Ti dico che nell’economia del discorso di Simmel (almeno quello del libro sul mediatore) non è tanto questo, quanto piuttosto il formale. La forma permette di trovare possibili occasioni di confronto, poi i contenuti diventano terreno molto più scivoloso. Del resto, non c’è soluzione, altrimenti avremmo risolto i problemi, anche quelli attuali. La mia idea è che si dovrebbe dare spazio alla reciproca accettazione dei confliggenti tra loro stessi, e qui la forma può aiutare. Se invece non c’è riconoscimento (è il caso delle guerre in corso) allora la figura del mediatore resta solo molto ideale, almeno fino a che non si trovano altre possibili occasioni. E la vita è una continua ricerca di soluzioni. Credo che la co-costruzione dei mondi in cui viviamo e le forme di interazione possano essere motivo di speranza. È un tema comunque su cui riflettere.
[22/5, 13:19]
Michael Shano: La tua riflessione sociologica, che qui pare profonda e non affatto spicciola, sembra analoga alla riflessione filosofica e teologica che esprime un senso di valori escatologici, orientati verso un distante futuro come quando che “Lo statista escatologico, con la sua fede profetica e la sua immaginazione piena di speranza, è l’unico politico che può orientare il necessario e inevitabile patto con Babilonia verso la pace vera e autentica”. Questo atteggiamento tuo impreziosisce i tuoi scritti. E legittima i tuoi sforzi che ormai durano da decenni.