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Paul Ricoeur, in “La parole est mon royaume” (Esprit, 1955), sosteneva che la parola era il suo lavoro, il suo regno: la “comunicazione, tramite la parola, di un sapere acquisito e di una ricerca in atto è la mia raison d’être”. Introduce direttamente all’importanza della parola nella costruzione della personalità umana e negli aspetti relazionali: nelle società tradizionali era l’unica modalità praticata di trasmissione della conoscenza, prima dell’avvento della scrittura e di tutte le evoluzioni che si sono determinate.

Françoise Waquet poco più di un anno fa parlò di oralità (F. Waquet, Oralità. Socialità ed emozioni nella trasmissione del sapere, festivalfilosofia, Modena 16 settembre 2023), partendo dal mondo accademico, dalla lezione in un’università, che costituisce la più comune modalità di trasmissione del sapere, sia in forma magistrale che dialogica. Ciò accade quando la lezione è ascoltata oppure se accompagnata da PowerPoint o ancora se c’è “ostensione di oggetti ed esperimenti”, “forme interattive come le esercitazioni pratiche o i seminari”. Si tratta di forme orali, di parole, di tempo dedicato al parlare; poi ci sono convegni, seminari, relazioni, comunicazioni, interventi; infine le domande del pubblico, di altri interlocutori che si relazionano con chi parla.

Waquet è convinta che le forme orali si siano ampliate, diversificate, mostrando una grande vitalità; si è sviluppata una comunicazione informale, discussioni e dialoghi oggi più efficaci che forbiti. Questo serve a spiegare che l’oralità e la parola servono come trasmissione di una massa importante di sapere e che il dialogo ha una funzione più importante rispetto ad uno studioso che agisca in maniera isolata: dati, contenuti, idee sono frutto di discussioni.

La studiosa si chiede quale ruolo possa avere oggi il libro.

Nel 1574, Gaetano Guazzo scriveva “Civile conversazione”, in cui affermava che l’uomo è un animale che conversa e che “il sapere comincia dal conversare e finisce nel conversare”. Era convinto del primato della conversazione sui libri: “meglio si apprende la dottrina per le orecchie che per gli occhi”.

Un testo orale è personale: viene prodotto in un momento preciso, in un luogo preciso e per un interlocutore specifico; il testo scritto invece è impersonale, adatto ad ogni situazione e ad ogni persona. Un’altra importante differenza è che ciò che è stato detto non può essere cancellato, può essere modificato successivamente, ma il linguaggio già pronunciato rimane; la spontaneità ha come svantaggio l’impossibilità di eliminare gli errori e la lingua parlata porta alla luce. Differente  è il testo scritto, più flessibile perché esiste la possibilità di modificarlo, perfezionarlo fino a quando l’autore non è soddisfatto del proprio lavoro.

Tutto ciò porterebbe a pensare che lo scritto sia da privilegiare. Eppure, la filosofa Françoise Waquet produce una disquisizione minuziosa sul ruolo dell’oralità nella stessa cultura trasmessa, mettendo alla prova un’idea prima di “rischiare il lungo processo della scrittura di un testo”.

Fa un esempio importante sulle “cose dette”, ovvero lezioni che poi diventano testo: “questa trasmutazione della parola orale in un libro consente di conservare idee preziose e di diffonderle al di là di quelli che hanno avuto la fortuna o il privilegio di sentirle”. Si è sostenuto che “le pagine sono mute” e che manca il timbro, il tono e la presenza (l’affermazione è del curatore di un corso di Bergson); Braudel rifiutò la pubblicazione di un suo corso che avrebbe fatto perdere ciò che “nell’espressione orale è un pensiero vivo”. Sbagliate sono state le pubblicazioni postume dei corsi di Foucault, che hanno cancellato i segni dell’oralità, letteralizzato il testo, facendo “sparire il contesto materiale”: modi di dire, esitazioni, auto-correzioni, lapsus.

La pubblicazione dei corsi, sostiene Waquet, se fanno conservare il senso di un discorso pronunciato, segnano la perdita di “un’alterità”, oppure la parola sarà eternizzata “sotto la forma imbalsamata di una mummia”, come sosteneva Roland Barthes.

La persona che parla non è solo una voce, ma anche un corpo e le sue espressioni. Aristotele insegnava mentre camminava; in seguito Goffman ha parlato delle infinite interazioni tra chi parla e chi ascolta, “una grammatica interazionale” fatta di posture, gesti, manifestazioni del volto. Ovvero la comunicazione non verbale.

A tal proposito, è messo direttamente in primo piano il linguaggio del corpo per esprimere o trasmettere informazioni, con comportamenti che possono essere anche inconsapevoli, tuttavia catturano l’attenzione e favoriscono le interazioni: non hanno un significato assoluto corrispondente a un certo movimento, ma sono comunque definiti linguaggio.

Il corpo è presente in quanto elemento sotterraneo  alla base di tutti i processi sociali. La ricerca antropologica, sin dalle origini, ha considerato il corpo  come un oggetto d’analisi: Marcel Mauss, ad esempio, ha parlato di tecniche del corpo per indicare i modi in cui gli uomini, delle diverse società, si uniformano alla loro tradizione.

Il corpo, quindi, viene considerato un habitus, che non varia secondo scelte individuali, quanto secondo le caratteristiche strutturali della società. Per Bourdieu è il luogo di esercizio privilegiato della forza simbolica: una forma di potere che si esercita, come per magia, senza costrizione fisica.  Il corpo appare sia come un principio di individuazione, in quanto localizza l’individuo nel tempo e nello spazio, sia come principio di collettivizzazione, in quanto inserisce il soggetto nella storia in armonia con l’ambiente esterno.

Entrano in gioco necessariamente le emozioni collettive che stanno insieme all’oralità e collegano i vari interlocutori. Molti studenti, sostiene Waquet, che hanno assistito alle lezioni di maestri del pensiero ammiravano ed erano affascinati da costoro, che mostravano seduzione e fascinazione, ed erano considerati dei veri e propri miti viventi.

Tuttavia non si può asserire che il mondo dell’oralità è quello perfetto, perché esistono persone che annoiano, che provocano indifferenza. Un esempio importante è quello di Hans Georg Gadamer che, in occasione di un seminario che si tenne a Capri nel 1994, non riuscì a comprendere ciò che avevano sostenuto gli altri relatori, essenzialmente per problemi di comunicazione linguistica. Aveva dovuto scrivere il suo intervento, che poi sarebbe apparso negli atti dei “Dialogues de Capri”, curato da Vattimo e Derrida, avvalendosi dei testi scritti degli altri suoi interlocutori non potendo ricavare molto da ciò che era stato trasmesso oralmente.

Nonostante questi inconvenienti, le comunità di persone si affidano al dialogo, mettendo in campo  “il gioco della parola viva”, che ancora rappresenta il mezzo più efficace per entrare in relazione con gli altri e costruire una società di confronto e scambio per lo sviluppo e il progresso del mondo circostante.

2 Responses to “La parola viva”

  1. Sergio Mantile

    Molto interessante. Giuste le considerazioni tra qualità e limiti della comunicazione orale e di quella scritta. Il problema, per me, è in quale misura tanto l’una che l’altra tendano ad una soggettività – che può essere testimonianza sincera, anche se singolare, oppure più o meno strumentale – ovvero ad una intersoggettività, che possa limitare in confini scientificamente accettabili la narrazione di una qualsiasi realtà.

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