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Uno sguardo alle analisi e agli studi, oltre che alle politiche incompiute, per fare alcune considerazioni su un fenomeno che ancora pervade il nostro Mezzogiorno.

 

 

Ancora oggi non è risolto un problema che ormai si prolunga almeno dall’Unità d’Italia, a partire da una situazione di persistente arretratezza nello sviluppo socioeconomico delle regioni del sud del nostro Paese: parlo della questione meridionale, che ha visto impegnati in un acceso dibattito tantissimi studiosi per oltre centocinquanta anni.

La storiografia all’unanimità ha sempre sostenuto le differenze tra le diverse aree della penisola, che si traducevano nel Mezzogiorno nella mancanza di una agricoltura intensiva, nel mancato impulso alla costruzione di vie di comunicazione, nell’assenza dell’industria.

Le cause vanno comunque ricercate nelle numerose vicende storico-politiche che hanno caratterizzato nei secoli il sud d’Italia: la mancanza di un periodo comunale; la persistenza di monarchie straniere incapaci di creare uno stato moderno; il dominio plurisecolare di un baronaggio detentore di tutti i privilegi; la persistenza del latifondo; la mancanza di una classe borghese. I nobili e il mantenimento dei loro privilegi determinarono una mentalità statica, un’atmosfera di servilismo che contribuì molto all’ignoranza e alla miseria del popolo. Su queste basi, si è sviluppata l’arretratezza e la scarsa possibilità di crescere e raggiungere i livelli di benessere di altri territori: le risposte delle popolazioni sono state, nell’ottocento e nei primi del novecento, il brigantaggio e l’emigrazione.

Nonostante ciò, vari problemi strutturali continuano a caratterizzare le possibilità di progresso economico: carenze infrastrutturali, politica ed investimenti poco attenti alle esigenze del territorio, ritardi della pubblica amministrazione. Tutto ciò comporta la fuga di tanti giovani che non trovano un lavoro e il consequenziale spopolamento di molte zone marginali rispetto ai centri più ricchi ed economicamente avanzati.

L’esistenza del divario nord-sud è attestata dai vari approcci storiografici, che ricalcano a grandi linee dibattiti ideologici e politici più ampi: la storiografia classica si sofferma sul fatto che quel divario era preesistente all’Unità d’Italia, per la diversa storia territoriale che si è evidenziata già a partire dal 1300; la storiografia moderna, soprattutto con Gramsci e Salvemini, vede il persistere della miseria come una componente essenziale allo sviluppo capitalistico e si basa sulle dicotomie sfruttatore/sfruttato, sviluppo/sottosviluppo; un’altra concezione vede nella demografia e nella geografia del sud le origini della povertà meridionale.

Sinteticamente rilevo le tappe principali.

Il grave degrado della vita amministrativa, dei sistemi di potere locali e l’indigenza delle masse popolari furono portati all’attenzione dell’opinione pubblica nazionale e delle classi dirigenti nei primi anni settanta dell’ottocento dagli studi di Pasquale Villari e dalle inchieste di Leopoldo Franchetti e Sidney Costantino Sonnino. Costoro denunciarono l’insufficienza dell’azione nel Mezzogiorno, riponendo nello Stato unitario qualunque speranza di soluzione dei problemi meridionali.

Pasquale Villari dal 1860 iniziò ad occuparsi della situazione del Sud di Italia. Nel 1875, e poi ampliate nel 1985, pubblicò le Lettere Meridionali. Il testo metteva in evidenza i problemi che affliggevano i territori dell’ex Regno delle Due Sicilie: in particolare l’industria dello zolfo in Sicilia, che necessitava di un aggiornamento delle tecniche estrattive, di commercializzazione del prodotto e di miglioramento della condizione lavorativa dei minatori. Convinto dell’importanza di un programma di opere pubbliche per il Sud, si occupò poi del problema della Camorra, denunciandone le cause sociali e lanciando l’allarme per l’estensione delle attività dell’organizzazione criminale.

Leopoldo Franchetti si interessò, in particolare, al problema della riforma agraria, evidenziando la necessità di un intervento economico nel settore. Sottolineò l’importanza del miglioramento delle condizioni culturali e di vita dei contadini e ritenne la questione meridionale il più grande problema nazionale postunitario. Respinse il luogo comune dell’indolenza dei contadini meridionali, sottolineando da un lato la laboriosità e l’onestà e, dall’altra parte, la condizione di ignoranza, mancanza di conoscenza dei propri diritti e la superstizione. Si occupò di mafia e criticò la soluzione affidata solo a misure di polizia: occorrevano interventi di riforma tesi ai cambiamenti delle condizioni di vita. Nel 1876 realizzò insieme a Sonnino un’inchiesta sulle condizioni politiche e amministrative della Sicilia. Il volume: La Sicilia nel 1876, si inserisce a pieno titolo nel dibattito sulla questione meridionale.

In seguito a queste prime prese di posizione, emerse il ruolo di Giustino Fortunato che rilevò come i problemi riguardanti la crisi sociale ed economica del sud dopo l’Unità d’Italia passassero per il miglioramento delle infrastrutture, dell’alfabetizzazione e della sanità, sostenendo politiche di bonifica e profilassi.  Il suo pensiero, che toccò aspetti geologici, economici e storici, esercitò una grande influenza su numerosi meridionalisti e sul panorama politico-culturale del tempo ma, al tempo stesso, fu penalizzato dal suo notorio pessimismo, che lo spingeva ad isolarsi dagli schieramenti politici. Fortunato fu vicino agli intellettuali napoletani di Destra, ma il suo conservatorismo non era chiusura a difesa dei rapporti sociali, ma si apriva ad una visione riformistica che intendeva superare la questione sociale. Le conoscenze delle condizioni economico-sociali delle province meridionali lo condurranno ad un’analisi spietata delle responsabilità di una classe dominante priva delle necessarie qualità e attitudini per essere classe dirigente. Il suo nome è legato alla questione meridionale, con una posizione a favore dei contadini del Mezzogiorno e critica sulla questione demaniale.

Tra i massimi esponenti de meridionalismo, Francesco Saverio Nitti approfondì le cause dell’arretratezza del Mezzogiorno d’Italia dopo l’unificazione nazionale, elaborando diverse proposte per affrontare il brigantaggio. Per lui esso poteva assumere diverse forme: banditismo comune per sfogare i propri istinti; reazione dovuta alla fame e alle ingiustizie della società; rivolta di natura politica. Egli era contrario ai luoghi comuni del brigante dedito esclusivamente a delitti e grassazioni, vi erano anche persone desiderose di diritti più umani e giustizia. Analogamente, anche l’emigrazione era un problema diverso dalla vulgata comune: si trattava della risposta sociale, spontanea, ineluttabile e inderogabile, alle condizioni socio-economiche esistenti nel Mezzogiorno. Nitti affrontò diversi temi per risolvere l’emergenza economica del sud, come la valorizzazione delle risorse naturali presenti nel territorio meridionale, proponendo molte leggi speciali per il progresso del mezzogiorno. Elaborò un programma organico e innovativo di solidarietà sociale e di interventi per l’espansione delle forze produttive. Nei suoi saggi: Nord e Sud (1900), e nel successivo: L’Italia all’alba del secolo XX (1901), Nitti espose la sua tesi sulle origini del dislivello economico e sociale tra settentrione e meridione italiano e criticò il procedimento in cui avvenne l’Unità d’Italia che non produsse benefici in maniera equa in tutto il Paese: lo sviluppo dell’Italia settentrionale fu dovuto in grande misura ai sacrifici del Mezzogiorno. I governi stanziarono risorse per le zone settentrionali accentuando così il divario e mantenendo il sud come feudo politico: tuttavia accusò anche la classe politica meridionale di mediocrità e disonestà. Ritenne che mancasse uno spirito del lavoro nelle classi medie, un’educazione industriale, la buona fede commerciale, l’interesse di ogni cosa pubblica, l’acquiescenza dei meridionali verso l’amministrazione e la politica pur di trarne piccoli vantaggi individuali. Per lui, la questione meridionale è una questione economica, ma è anche una questione di educazione e di morale.

Gaetano Salvemini sottolineò il sistematico sfruttamento del Mezzogiorno da parte del capitale settentrionale e l’adozione di una legislatura statale particolarmente penalizzante per il Sud, resa possibile dalla complicità dei grandi proprietari terrieri meridionali e dai loro alleati, i piccoli borghesi locali. Concentrò le sue analisi sugli svantaggi che il sud aveva ereditato dalla storia e indicò come necessaria l’alleanza degli operai del nord con i contadini del sud.

C’era una coincidenza di vedute con Antonio Gramsci che lesse il ritardo del sud attraverso la lotta di classe. Studiò le rivolte contadine, auspicando la maturazione politica dei contadini attraverso l’abbandono della rivolta fine a se stessa per assumere una posizione rivendicativa e propositiva. Nella sua opera: La questione meridionale, si soffermò sulla profonda differenza socioeconomica tra il Nord-centro e Sud della penisola italiana. Nella sua analisi sulla struttura culturale e politica della società, elaborò un concetto importante: quello di egemonia. Aveva maturato la convinzione che occorresse passare all’azione per affermare le rivendicazioni ed attenuare le distanze tra ceti dominanti e dominati, con l’acquisizione della consapevolezza degli umili della propria condizione, attraverso la crescita e l’educazione delle masse. Sostenne che la società meridionale fosse costituita da tre classi fondamentali poco interconnesse: la grande massa contadina amorfa e disgregata, gli intellettuali della piccola e media borghesia rurale, i grandi proprietari terrieri e i grandi intellettuali.

L’assenza di uguaglianza al momento dell’unificazione aveva prodotto un’egemonia del Nord, sempre più ricco, sul Mezzogiorno, che ne era risultato impoverito. Inoltre, le zone urbane nel Mezzogiorno, non essendo centri di produzione, erano anzi subordinate alla campagna, dove i braccianti erano semplici contadini senza terra: nel sud c’era una concentrazione di poveri che non potevano migliorare le condizioni di vita. Nell’analisi gramsciana, vi era un’attenzione verso la riforma agraria, che potesse consentire il superamento del latifondo da ottenere attraverso una redistribuzione della terra.

All’indomani del secondo conflitto mondiale si ebbe una vigorosa ripresa dell’azione di denuncia e proposta dei maggiori meridionalisti, nonché dei partiti che si affacciavano ufficialmente alla vita politica. Tutte le altre forze intellettuali e politiche ritenevano indispensabile e urgente un intervento straordinario dello Stato sugli assetti socioeconomici del Mezzogiorno.

Guido Dorso rivendicò la dignità della cultura meridionale e denunciò i torti dei partiti politici. Collaborando alla rivista di Piero Gobetti: La Rivoluzione Liberale, nel suo celebre saggio: La rivoluzione meridionale, auspicava la nascita di una nuova classe dirigente di severo rigore morale. Durante la Resistenza si iscrisse al Partito d’Azione e nel 1944 pronunciò la Relazione sulla questione meridionale. Dopo varie esperienze, in cui si batté per la nascita di una Nazione che completasse il Risorgimento italiano (L’occasione storica), nel 1945 si dimise dal Partito d’Azione in seguito alla constatazione del venir meno dell’impegno meridionalistico.

Ad ogni modo, con il dopoguerra, le differenze di impostazione erano marcate. Il PCI riproponeva sostanzialmente immutata la strategia di alleanza tra operai del Nord e contadini del Sud sull’esempio di Gramsci. La Riforma Agraria doveva essere strumento di avvio di un processo rivoluzionario degli assetti sociali e politici dell’intera società meridionale e nazionale. Alla Riforma Agraria, al contrario, guardavano con favore esponenti importanti del mondo cattolico, che vedevano nella formazione di una piccola proprietà coltivatrice lo strumento per il rilancio del processo di modernizzazione di una società rurale meridionale.

Quella Riforma fu al centro del disegno di Manlio Rossi Doria e del meridionalismo socialista. Le soluzioni prospettate puntavano a duraturi e significativi miglioramenti produttivistici, pur nella consapevolezza che essi non sarebbero bastati a riequilibrare il rapporto tra popolazione e risorse nel Mezzogiorno. Rossi Doria vedeva inevitabile una nuova ondata migratoria dal Sud, come condizione per la creazione in tempi brevi di un’agricoltura competitiva e l’avvio di uno sviluppo economico autopropulsivo, che avrebbe potuto estendersi anche ad attività industriali.

Il più grande processo di trasformazione della società meridionale è avvenuto proprio grazie alla destinazione di una mole senza precedenti di risorse, come sostennero a partire dal 1946 i fondatori della SVIMEZ e poi i meridionalisti liberaldemocratici gravitanti intorno al Mondo di Pannunzio e alla rivista Nord e Sud fondata da Luigi Compagna. Costoro negli anni Cinquanta propugnavano uno sviluppo che rendesse quella meridionale una società pienamente e organicamente sviluppata in tutte le sue componenti, rurali e urbane. E ciò con un intervento straordinario che doveva avvenire anche attraverso istituzioni appositamente finalizzate alla loro applicazione: la Cassa per il Mezzogiorno.

La politica di intervento straordinario si concluse senza annullare il divario Nord-Sud e la sua liquidazione sancì la scomparsa della questione meridionale dall’agenda politica del Paese. Ciò avvenne per una serie di ragioni: crisi petrolifera; assenza di un’efficace programmazione politica; uniformità dei livelli salariali tra Nord e Sud che scoraggiava gli investimenti; insufficienza delle classi dirigenti regionali di fronte alla prova dell’autonomia; crescita della malavita organizzata; uso clientelare delle risorse destinate al Mezzogiorno.

Il persistere del divario e l’assenza nel Mezzogiorno di una condizione di sviluppo economico strutturale sono problemi che non si possono ignorare. Rosario Romeo sostenne che il sacrificio del Mezzogiorno era stato funzionale, se non addirittura essenziale, allo sviluppo dell’industria settentrionale. Attribuì i problemi del Mezzogiorno ai tratti culturali, caratterizzati da individualismo, scarso senso civico, piuttosto che da ragioni storiche o strutturali. Più recentemente, Paolo Sylos Labini riprese tesi che vedevano nell’assenza di sviluppo civile e culturale le origini del divario economico. Considerò la corruzione e la criminalità come forme endemiche della società meridionale, e vide nell’assistenzialismo il maggior ostacolo allo sviluppo. Una tesi a tratti riproposta è quella di Edward C. Banfield, che parlò di familismo amorale in una società basata su una concezione estremizzata dei legami familiari, a danno della capacità di associarsi e dell’interesse collettivo.

Dunque con il passar degli anni quella meridionale resta una questione che ha solo prodotto inutili dibattiti e polemiche, senza alcuna forma di intervento costruttivo. Consapevoli che l’arretratezza accumulata dal Sud rischia di trasformarsi ormai in un fattore di grave rallentamento della stessa economia nazionale, tutti continuano a sollevare il problema senza trovare soluzioni: si verifica al contrario una rincorsa allo spopolamento e all’abbandono, soprattutto dei giovani, dei territori più a sud e più ai margini dello sviluppo. Oggi sembra che l’Unità d’Italia sia una questione ancora incompiuta, con un nord Italia in linea con i Paesi più prosperi, come Germania, Olanda e Belgio, ed un sud in sintonia con le nazioni meno sviluppate: Grecia, Polonia, Ungheria.

Se il divario però si basa su considerazioni antagonistiche, l’idea della continua spoliazione di risorse dal sud al nord, si creano solo divisioni certamente imputabili alle classi economicamente avvantaggiate, ai governi che nei decenni si sono succeduti e che non hanno avviato iniziative idonee ad un eventuale sviluppo nel Mezzogiorno.

Esiste però un Sud che ha ricchezze culturali e turistiche che necessitano di essere valorizzate attraverso un cambiamento di prospettiva e un ripensamento del “modello economicistico” oggi dominante. Molti istituti di ricerca oggi rilevano l’ambito culturale e creativo su cui indirizzare politiche di intervento. E’ vero che nel Mezzogiorno si sommano diverse problematiche: la prima è l’assenza di sviluppo di forme imprenditoriali per gestire il patrimonio storico-artistico; in secondo luogo, sono carenti le metodologie in grado di monitorare il contributo del cosiddetto “terzo settore” al benessere economico e sociale delle comunità; infine, c’è la questione della mancanza di risorse qualificate e del lavoro in sinergia tra i professionisti della cultura e della creatività e quelli del settore turistico.

Ambiente, turismo, cultura potrebbero creare le basi per un approccio differente, che significa incentivare progetti, attuare interventi mirati per favorire la reale capacità di creare sviluppo affidandosi a tecnologie digitali. Gli strumenti tecnologici costituiscono oggi i principali attrezzi di lavoro per gli imprenditori e gli operatori socio-culturali, che dovrebbero reinventare e aggiornare le pratiche professionali, le proprie competenze, ma soprattutto i processi di produzione, distribuzione e fruizione di prodotti e servizi.

Questa potrebbe essere una strada per affrontare differentemente la questione meridionale nel terzo decennio degli anni duemila.

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