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Maddalena D’Angelo ha realizzato una ricerca sui dialetti, con particolare riferimento alle aree meridionali e a Roccadaspide, dedicando il suo studio, oltre che alla famiglia, alla sua terra “che danza sulla scia d’altri tempi”.

E sono proprio quei tempi passati cha vanno valorizzati, soprattutto il dialetto, una delle massime espressioni dell’identità di un luogo.

In questo scritto intendo soffermarmi su alcuni aspetti della ricerca: il dialetto e i tratti tipici di una terra; il territorio e la sua cultura; il lavoro di inchiesta linguistica; il dialetto e l’importanza della sua valorizzazione.

Il proposito è quello di ampliare il raggio di conoscenza degli studi dialettologici, con riferimento all’area campana e cilentana, anche se l’autrice non disdegna di soffermarsi in generale sull’importanza e la differenza tra lingua e dialetto.

Quest’ultimo è derivato dal latino, per cui è corretto utilizzare l’espressione “dialetti italo-romanzi” (varietà linguistiche neolatine) o “dialetti d’Italia” (D’Angelo). Tra lingua e dialetto non c’è differenza  se non per il fatto che il territorio dei dialetti è più ristretto e non è limitato ad una tradizione scritta e letteraria. Ad ogni modo, essi hanno valore storico-politico, ovvero abitudini radicate nel tempo. Questo fatto è importante per la stessa evoluzione dei dialetti e per le loro contaminazioni: le loro varietà, infatti, si classificano rispetto al grado di conservazione della “tipologia delle comunità di parlanti”.

Gli studi più sistematici sul linguaggio cilentano sono stati compiuti, oltre che da Rohlfs, che individua, come sostiene l’autrice, due spartiacque linguistici nella nostra penisola: a) la linea La Spezia-Rimini; b) la linea Roma-Ancona, anche da Ondis. I due studiosi tuttavia hanno avuto opinioni contrastanti dovute all’utilizzo delle pronunce dei termini dialettali ed alla loro origine storica. (G. Rohlfs, Studi linguistici sulla Lucania e sul Cilento, Congedo Editore, 1988, Ia Ediz. 1937; L. A. Ondis, Fonologia del dialetto cilentano, Galzerano Editore, 1996, Ia Ediz. 1932)

Per Rohlfs i dialetti del Cilento sono distinti tra territorio settentrionale, molto più vicino al modello napoletano (che sente l’influsso delle varie dominazioni succedutesi), e quello del sud che subisce le influenze della antica lingua italica, di quella greca e lucana, del latino che ha determinato una importante evoluzione linguistica dell’intera area.

La nostra zona ha certamente avuto influenza etrusca ed italica. Dagli studi sul Cilento, si evince che questo territorio era una parte dell’area che fu chiamata Italia, riscontrabile presso uno dei popoli antichi, gli Osci. Strabone sosteneva che Sanniti, Lucani e Bruzi avessero gli stessi costumi, lingua, religione, organizzazione politica, tanto che ci si riferisce in epoca tardo repubblicana ad una comunità indipendente da Roma, con capitale Corfinium, poi Italia.

I Romani entrano in contatto con gli Italici, i Greci con gli Enotri (Cilento, Basilicata, Calabria), costituiti in Ausoni, Opici, Osci (Campani, Sanniti, Lucani, Brettii). Con le regiones di Augusto il territorio subisce il primo accorpamento.

Di interesse, sono gli studi sui Sanniti, imparentati con gli Osci, la popolazione proveniente dall’Appennino è risospinta dai Greci verso l’interno. Gli Osci da Etruschi e Greci apprendono la polis/comunità; si differenziano dai Sanniti anche se hanno una lingua simile, l’osca, che è parlata anche da Campani, Lucani, Brettii.

L’osco fa parte delle lingue sabelliche insieme all’umbro e ai cosiddetti dialetti minori da cui si differenzia per alcune caratteristiche di carattere grammaticale. Le lingue sabelliche fanno parte della famiglia linguistica indoeuropea e insieme al latino-falisco sono annoverate tra le lingue italiche. Nel contesto dell’Italia antica l’osco e le altre lingue sabelliche fanno parte di una koinè linguistico-culturale caratterizzata da contatti osmotici tra lingue sabelliche, latino-falisco ed etrusco e che ha portato alla condivisione di aspetti linguistici condivisi per cui è difficile rintracciarne l’origine.

L’osco è una lingua frammentaria: la documentazione è soprattutto epigrafica, anche se si hanno notizie di una fiorente letteratura in lingua osca naufragata per la diffusione del latino. La lingua osca era parlata grosso modo dal VI-V secolo a.C. fino al processo di romanizzazione (circa I secolo a.C.), con l’egemonia politica di Roma sulle altre popolazioni italiche. Il processo di romanizzazione ebbe come immediata conseguenza la cosiddetta latinizzazione linguistica, cioè la diffusione del latino rispetto alle altre preesistenti tradizioni linguistiche che concorsero alla preistoria dell’italiano.

Molti studi hanno distinto il dialetto che si è modificato in contatto con “aree focali” che innovavano nelle regioni circostanti. Si possono rilevare: “zone conservative” (linguaggi arcaici); “zone di transizione” (coesistenza di forme linguistiche identificate) e “zone di innovazione”. Gli scambi e i cambiamenti hanno causato il mutamento linguistico.

Se le teorizzazioni che riguardano le influenze napoletane a nord e greche al sud sono importanti, si può asserire che i fenomeni caratterizzanti le differenze linguistiche sono stati quello geografico (territorio interno/costa) e quello legato allo sviluppo economico di un paese, che fa perdere non solo le forme dialettali più arcaiche ma anche le pronunce.

Come sostenuto dall’autrice, la linea Roma-Ancona comprende i tratti linguistici del centro-sud. Entrambe queste isoglosse (uguale lingua) rappresentano un comune elemento linguistico, coincidendo con fatti storici e geografici specifici.

Il dialetto nelle comunità cilentane del passato era l’unico linguaggio conosciuto ed utilizzato. Con la fine del novecento e la diffusione ed acquisizione della lingua italiana, anche nei luoghi più impervi e inaccessibili molti termini dialettali sono stati riproposti e rivalutati, accostando le espressioni gergali alla lingua nazionale per mantenere integra l’identità linguistica territoriale.

È il concetto di alfabetizzazione basato sull’oralità e la scrittura che può portare qualche spunto di riflessione. L’oralità realizza la conoscenza attraverso contatti e comunicazioni immagazzinati nella memoria: si sviluppa una relazione tra simbolo e referente e il significato di ogni parola è associato a situazioni concrete ed è accompagnato da “inflessioni vocali e gesti”. Questo sistema di oralità consente ad ogni generazione di mediare i contenuti ereditati in modo che i nuovi elementi si adattino ai vecchi, attraverso un processo “di razionalizzazione e di ricerca del significato”. Ciò che non ha più rilevanza è dimenticato ed il linguaggio si sviluppa in associazione alle “esperienze della comunità”.

Passando al lavoro di Maddalena D’Angelo nella nostra zona di influenza i tratti comuni sono: la metafonesi (innalzamento del timbro delle vocali accentate); l’uso del possessivo enclitico (posposto e privo di accento con i nomi di parentela); la conservazione del neutro latino (ferro = ferru(m) o ffiérre). La differenza tra area meridiana e meridionale è il trattamento delle vocali finali non accentate (nero = nirë).

In Campania è di rilievo il fenomeno della metafonesi (la vocale tonica si modifica per influenza delle vocali atone i e u). Scrive l’autrice: “per effetto della metafonesi quando nella sillaba successiva o in quella finale si trovano i e u le vocali aperte toniche – è, ò – dittongano in ie o uo” (anello = aniello; presto = priesto). Se la metafonesi colpisce le vocali chiuse é, ó – sempre per effetto della i, u – la é chiusa diventa i e la ó chiusa u. Esempio: aceto = acito; freddo = friddo; pastori = pasturi. Poi c’è il betacismo in cui la v diventa bb: vacche = ‘bbacche.

Questi esempi introducono il passaggio verso la ricerca territoriale vera e propria. Alcuni cenni storici e geografici portano verso la cultura e le tradizioni di una terra dedita a lavori agricoli, con riscontri legati alla mietitura del grano, all’uccisione del maiale, all’innamoramento/ matrimonio, alle occasioni festive e culinarie.

L’inchiesta linguistica utilizzata dall’autrice è l’intervista semi-strutturata, con l’importanza data alla vita quotidiana e alle occasioni più rilevanti che ogni protagonista ha vissuto. Sono stati raccolti etnotesti (espressioni di una comunità linguistica); gli intervistati hanno ricevuto le informazioni sulla finalità della ricerca; sono state realizzate 3 interviste a tre protaginisti di 93, 75 e 76 anni, con basso livello di istruzione e lavoro essenzialmentre contadino. L’autrice parla delle trascrizioni, dell’utilizzo di segni specifici, di tutti gli accorgimenti utilizzati per la trascrizione e la fruizione dei materiali ai lettori. Sono quindi riportati i brani in dialetto con traduzione italiana, concernenti gli esempi di vita contadina.

Per l’analisi dei dati si è fatto riferimento alla posizione linguistica del territorio, una sub-regione campana di confine tra Basilicata e Calabria: una terra peninsulare che favorisce la dialettica tra costa e interno. Poi c’è la questione dei confini con differenze tra piana pestana da un lato e paesi ad est e a sud; infine la definizione storica legata al principato longobardo di Salerno e la separazione dall’antica Lucania.

Scrive D’Angelo: “il territorio lucano tirrenico a sud di Paestum, divenuto Cilento e rimasto legato alla Salerno longobarda, non ha più condiviso alcune delle tendenze in atto nella Lucania-Basilicata bizantina”.

I dati sono stati sottoposti ad analisi fonetica e morfologica, al lessico e alla sintassi; il lavoro presenta in conclusione un interessante glossario di termini dialettali.

La individualità del Cilento sul piano culturale e linguistico ha ancora dunque una propria valenza?

A livello fonetico, queste le conclusioni, “l’area mostra una forte componente di unicità linguistica coindivisa, almeno in parte, dal circostante territorio cilentano, che si interseca all’influenza del napoletano nella presenza della metafonesi”. Sul piano morfologico, la varietà dialettale mostra “fenomeni che segnano il confine linguistico tracciato dalla linea Eboli-Lucera”; a livello lessicale, elementi dimostrano “affinità con l’area cilentana e irpina”.

L’evoluzione della lingua è la circolazione della parole, attraverso cui “si diffondono poi anche gli elementi della fonetica e della morfologia”.

La domanda finale è: dove va il dialetto?

Alla fine del novecento esso non ha più valore negativo di collocazione sociale svantaggiata (ceti umili e privi di istruzione) ed acquisisce una nuova valenza positiva anche tra i giovani (pensiamo alle canzoni di alcuni rapper). Italiano e dialetto non sono più idiomi contrapposti ma “varietà interne ad un continuum unitario”.

In conclusione, quello dell’autrice è certamente un passo importante per permettere al territorio di Roccadaspide, e non solo, di approfondire la conoscenza della propria lingua e dunque l’affermazione della sua identità.

 

Pasquale Martucci

 

2 Responses to “Il dialetto nel Cilento: una ricerca a Roccadaspide”

  1. Antonio

    Perfetta recensione questa da parte del Sociologo di riferimento per quanti studiano il territorio del Parco Nazionale del Cilento!

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