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Alcune considerazioni a partire dal romanzo di Giovanna Di Francia: “Anche in carcere viene Natale”, Independently published, 2023.


 

Ascoltare le storie di un carcere, alla ricerca del sapore della libertà, produce emozioni forti e soprattutto sofferenza negli animi sensibili: solo un’esperienza dietro le sbarre può avvicinare alla “comprensione di questo sentimento”, scrive Giovanna Di Francia, sottolineando il senso di disagio nel suo viaggio che porta ad un’esistenza negata per un nonnulla, tra sconfitte personali e sociali.

La detenzione rappresenta un evento fortemente traumatico per chi ne è coinvolto: il carcere rompe aspirazioni, sentimenti, abitudini, rapporti emotivo-sentimentali, che ora sono un passato remoto, lontano, quasi estraneo. Sostiene Luigi Manconi (“Perché serve un gesto di clemenza”, La Repubblica, 3 dicembre 2024) che la sua struttura immanente e oppressiva e la sua insensatezza costituiscono un sistema patogeno che produce alienazione, psicosi, depressione, autolesionismo e morte.

La persona entra in una comunità di appartenenza che Donald Clemmer definiva “processo di prisonizzazione”, ovvero l’identificazione con l’ambiente e la realizzazione del processo di assimilazione/acculturazione: “l’assunzione in grado maggiore o minore del folklore, dei modi di vita, dei costumi e della cultura generale del penitenziario”. (D. Clemmer, “The Prison Community”, Boston, The Christopher Publishing House, 1940) Tutto ciò può produrre una “sindrome” (definita di prisonizzazione) di spersonalizzazione e demolizione della propria immagine e autostima, in quanto la persona è inglobata in una realtà totalizzante e coercitiva che fa perdere la propria identità.

L’autrice di questo libro è molto impegnata: insegnante, giornalista, blogger, scrittrice, avvocato, guida turistica. È presidente dell’associazione di promozione sociale “Nuova Dicearchia”, attivista ambientale e volontaria di sostegno presso la “Casa Circondariale Femminile” di Pozzuoli, volontaria di Protezione Civile presso il Comune di Pozzuoli. Gestisce poi “Il Blog di Giò”, per osservare il mondo da un’altra prospettiva, nel rispetto delle dignità personali, delle forme di marginalità, mettendo in discussione una società omologata.

Tutto ciò è evidente quando Di Francia tratta le storie. È un racconto di donne che si arricchisce di particolari man mano che si penetra nei meandri più bui del carcere, offrendo storie sempre più tristi e legate alle negazioni di figli, di identità, di amicizia, e attribuzioni di colpe.

La protagonista del romanzo intreccia la propria storia con quella di una detenuta della Casa Circondariale Femminile di Pozzuoli, e poi con altri personaggi che ruotano intorno a questo luogo di reclusione. La protagonista è una donna che si confronta con la sua vita, con le sue passioni e la ricerca di stimoli per poter continuare ad esistere. Si avvicina alla reclusione di tante donne sulle quali sembra chiudersi la porta della vita quando si trovano ad essere condannate, a soffrire per la lontananza dagli affetti e vorrebbero un cambiamento che possa restituire loro la libertà e un ritorno nella società.

Queste detenute, dunque, cercano di sfuggire al loro destino, anche se la società non è pronta ad ascoltare il loro dolore. Ecco allora che la scrittrice attraversa le storie per sollevare un velo ed indurci a riflettere su cosa si può fare per affrontare ed attenuare le barriere in un mondo di errori, che a ben vedere sono anche di chi non è in grado di ascoltare, di permettere a chi devia di essere accolto e forse soprattutto “rispettato”.

Le storie di vita partono dall’osservazione e dal contatto con l’interlocutore per comprendere un fenomeno, partecipando in maniera soggettiva e coinvolta all’interazione. Franco Ferrarotti ha sottolineato come il metodo della “storicità non storicistica”, ovvero le storie di vita, possa aiutare a comprendere ciò che accade: c’è sempre “una necessità di vita che non consente rinvii né permette e avalla compromessi”. (Franco Ferrarotti, “Storia e storie di vita”, in: “Opere. Scritti teorici”, vol.1, Marietti1828, 2019, p. 771)

Si tratta di un approccio che alla datità preferisce la pratica di vita, e richiede la piena attenzione e il coinvolgimento nella narrazione, per interpretare significati sottesi, non necessariamente chiari allo stesso narratore. Si tratta di realizzare una con-ricerca, un processo che coinvolga entrambi i soggetti, irripetibile, che si sviluppa su scenari di vita carichi di emozioni, un viaggio certamente nell’animo umano ancora da scoprire anche se è il riflesso della realtà. E credo che le storie di detenute presentate da Giovanna Di Francia possano costituire e rappresentare una condizione vissuta della questione carceraria.

Carlo Di Somma nella prefazione al volume sostiene che in quel mondo (il carcere) “sfuma il confine tra romanzo e realtà”: è una condizione sconosciuta fatta di “quadri vividi” che racchiudono pezzi di vita. Nel romanzo ci sono infatti: amore, perdita, coraggio, resilienza, ovvero parole che servono alle protagoniste per trovare un senso all’esistenza quotidiana, ma soprattutto speranza, quella di credere in un cambiamento.

L’autrice scrive in modo chiaro e molto coinvolgente: la storia, che racchiude le storie, scorre senza infingimenti o intoppi, oppure arzigogoli. La detenuta principale, che poi presenta le altre in un fluire veloce, affronta le difficoltà di fare impresa: è questo oggi un problema evidente, che impone di lottare specie a persone preparate e che conoscono il mondo della legge e degli adempimenti, ma si scontra con un contesto ostile e con una burocrazia fredda e arida.

Cosa fare?, si chiede la protagonista: occorre non abbandonare, non smettere di lottare. La detenuta alterna delusione a determinazione, essendo collocata in un immaginario sociale che la definisce “Lady Mense” (il suo ambito di attività). È la mafia bianca, più violenta di qualsiasi azione ritorsiva, che “se decide di distruggerti ti invita a farti da parte!”. Denunciata, assolta, condannata, rilasciata, poi infine reclusa. Perde gli affetti, ma non demorde e continua a studiare e a trovare nel rispetto e nell’altruismo le armi per poter continuare. È questo il caso emblematico di un reato che investe persone che hanno “vergogna” di accettare di perdere non solo ciò che hanno realizzato, ma la loro stessa dignità e conoscere il rifiuto sociale.

Giovanna Di Francia produce una riflessione che andrebbe con forza sostenuta nell’intera società per sensibilizzare intorno al problema delle carceri: in TV si affrontano i fatti di cronaca e tutti i particolari di chi commette un crimine, però “nessuno racconta dei condannati in via definitiva e delle loro vite”. Per questo motivo le storie narrate dalle persone coinvolte sono il mezzo di divulgazione più efficace, in quanto colpisce le corde dei sentimenti e delle emozioni umane che sono differenti l’una dall’altra ma pur legate a limitazioni di libertà e forme di coercizione.

Per parlare di distanze e diversità, mi voglio riferire ad uno dei capitoli: L’identità di genere dietro le sbarre. Si tratta della vita di un ragazzo transgender che sconta il disagio di chi è stato rinchiuso in un luogo in cui nessuno riconosce la sua identità: “mi chiamano con un nome non mio, mi parlano coniugando le parole con un genere che non mi appartiene, mi vedono e mi guardano con sdegno perché io sono il diverso, quasi mi sembra di fare senso alle mie compagne”. Vorrebbe dagli altri solo “lo sforzo di essere rispettato”.

La questione “genere” è stata sempre fonte di contrasti e di opinioni divergenti, nonché causa di esclusione e discriminazione. Il concetto è mutato nel tempo, a cominciare dalle società dove i ruoli assegnati agli uomini ed alle donne erano differenziati. Oggi bisogna considerare sia il genere che il sesso come dinamiche che non implicano differenziazione tra le forme della maschilità e quelle della femminilità, proprio come accadeva nelle civiltà più antiche, quando la natura umana e le sue declinazioni erano molto più tollerate.

Il mito, narrato da Aristofane nel “Simposio di Platone”, era “L’androgino”.

In origine gli esseri umani erano tre, non due come adesso, maschio e femmina, ma se ne aggiungeva un terzo, partecipe di entrambi, che ora è scomparso e ne resta solo il nome, inteso in senso dispregiativo. Essi erano attaccati tra loro attraverso il petto: avevano quattro mani, quattro gambe, due volti su un collo perfettamente rotondo, ai due lati dell’unica testa; avevano due organi per la generazione. Il maschio traeva la sua origine dal Sole; la femmina dalla Terra; l’androgino aveva i caratteri d’entrambi, originati dalla Luna (sia Sole che Terra). Le persone erano strettamente legate e coinvolte l’una nelle vicende dell’altra: una duplicità che riguardava la sfera di colui che scopre l’altro da sé e con cui deve fare i conti, ma anche differenze nella stessa persona con tratti spesso antitetici. Quando Zeus li divise, le due metà si cercavano perché non potevano fare a meno l’uno dell’altro, ma morivano perché erano state distinte. Il padre degli dei, mosso da pietà, spostò sul davanti gli organi della generazione e permise loro di accoppiarsi e provare piacere: se un uomo avesse incontrato una donna, essi avrebbero avuto un bambino e la specie si sarebbe così riprodotta; se un maschio avesse incontrato un maschio, essi avrebbero raggiunto presto la sazietà nel loro rapporto, si sarebbero calmati e sarebbero tornati alle loro occupazioni. (Giulio Guidorizzi, “I colori dell’anima. I Greci e le passioni”, Cortina, 2023, p. 163)

Il mito definisce il desiderio di relazionarsi con gli altri e ricercare gli affetti e l’attrazione tra sessi, tutto ciò oggi è negato dal senso di coercizione per la condizione carceraria e di riprovazione per la diversità, ovvero la non omologazione e la differenza. Accade che si prova quel senso di disgusto rispetto ad una condizione che per Platone era naturale.

Una conclusione interessante sul romanzo è quella affidata a don Fernando Carannante, che sottolinea il velo di tristezza constatando “quante vite di donne, nate per amare e insegnare ad amare, sono state distrutte da scelte sbagliate e da incontri che si sono rivelati scontri”. Tuttavia, questo libro porta a riflettere sulla donna che si svela per permettere di penetrare nel suo animo ed apprezzare quello che è “il capolavoro della creazione”, cioè il fatto di essere nel mondo a prescindere da giudizi di valore e riprovazione sociale.

Un’ultima considerazione è sui contenuti del libro che, a mio vedere e al di là dell’interesse a narrare toccanti storie di vita, rappresentano una testimonianza sul campo, in veste di osservatore partecipante di un ambiente sociale unico al cui interno si possono analizzare relazioni umane e dinamiche sociali.

La ricerca che Giovanna Di Francia ha compiuto sembra appartenere ad una sociologia che si occupa del carcere, non entrando tanto nelle dinamiche dell’amministrazione della pena, quanto piuttosto indaga le pratiche e le relazioni tra le detenute per rilevarne le difficoltà umane, psicologiche e sociali, legate a quel contesto. È ciò che la sociologa Francesca Vianello (“Sociologia del carcere”, Carocci, 2019) definisce “il precipitato delle politiche di criminalizzazione”, attraverso analisi che, partendo dall’approccio storico-sociale e quello sociologico-giuridico, considerano importante il metodo etnografico per studiare il carcere come mondo sociale che affronta le dinamiche della vita detentiva.

Di recente, a tal proposito, è stato ripreso il concetto di Pierre Bourdieu di “carceral habitus”, che può dare riferimenti alle teorizzazioni riguardanti i processi di prisonizzazione. Quella dei campi sociali è una prospettiva interessante che, nell’ambito della definizione di precise forme di potere, dominio e violenza simbolica, verrebbe di citare i tanti lavori di Foucault, soprattutto “Sorvegliare e punire” (Einaudi, 1979, or. 1975), vuole indirizzarsi ad interpretare le “pratiche” penitenziarie in un quadro relazionale più complesso. (Alessandro Maculan, “Bourdieu in carcere. Appunti per una sociologia del campo penitenziario”, in: “Sociologia del Diritto”, Vol. 50, Numero 1, 2023, pp. 89-114)

Questa prospettiva permette di smarcarsi da quell’ideologia penitenziaria contemporanea che corrisponde ad “un misto di legalismo e umanitarismo”, come intende la tradizione filantropica liberale, proponendo una lettura prettamente sociologica del mondo carcerario che ha una vocazione principalmente qualitativa ed etnografica.

Giovanna Di Francia in questo suo romanzo cerca proprio di indirizzare le sue storie verso la comprensione dei significati relazionali di quello che è oggi uno dei campi specifici della “Sociologia del carcere”, che dedica particolare attenzione agli studi etnografici e qualitativi realizzati in carcere e sul carcere.

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