Il mondo in cui viviamo si fonda su una civiltà visiva, di immagini, che privilegia la vista, su cui l’individuo pensa di possedere un controllo maggiore rispetto agli altri sensi.
È attraverso la percezione visiva che l’uomo principalmente entra in rapporto con il mondo esterno.
Ci sono molte e importanti citazioni a testimonianza che l’occhio permette all’uomo di riconoscere il mondo come altro da sé, di costruire la propria identità culturale, il proprio senso di appartenenza sociale ed esprimere la propria soggettività.
E’ però corretto pensare alla percezione sensoriale e al ragionamento come momenti distinti di un unico processo in cui una necessita dell’altro.
Non si tratta di scegliere un’immagine per accompagnare una spiegazione, ma di usare l’immagine per avviare l’approfondimento. Dipinti, disegni, incisioni, fotografie e manifesti sono utilizzati per ragionare sulla realtà politica, sociale, economica e culturale.
La narrazione visiva è un fenomeno di interesse per la comunità accademica, in quanto studiosi, filosofi ed educatori hanno cercato di comprendere l’impatto e il potere dell’immagine e della narratologia visiva sulle persone e nelle società. Il vantaggio di raccontare storie o contenuti per immagini, secondo questi studiosi, risiede in quella che viene da loro chiamata lettura silenziosa, ovvero quel tipo di lettura di immediata comprensione, induttivo/deduttiva: insomma, un tipo di lettura per insight, ovvero per mera intuizione.
Le immagini hanno un forte potere evocativo dei concetti di cui sono carichi, anche quelli astratti. Si tratta di un esercizio di: sintesi, immedesimazione, contestualizzazione, espressione in chiave personale ed emotiva. Emotiva poiché ogni creazione (audio)visiva contiene in sé sempre una certa soggettività, perché le immagini colpiscono in primo luogo la psiche, e solo in un secondo momento vengono razionalizzate, dunque processate in maniera cognitiva.
Un’immagine ci presenta la realtà riprodotta, ci dà una rappresentazione di una cosa o di un fatto. L’immagine prende il posto del fatto o della cosa, sostituisce e rappresenta la realtà riprodotta. Ciò che differenzia le immagini iconografiche non è tanto il contenuto quanto le interpretazioni e gli utilizzi che se ne fanno; infatti, “la realtà umana non può trovarsi nella fotografia, ma nell’intenzione del fotografo” (F. Ferrarotti, Dal documento alla testimonianza. La fotografia nelle scienze sociali, Liguori, 1974).
L’immagine fotografica è il prodotto tra la realtà e l’interpretazione di quella realtà da parte del fotografo. I significati che le immagini assumono, solo convenzionalmente possiamo definirli oggettivi, dato che dipendono da meccanismi percettivi interiorizzati socio-culturalmente. Da qui la diversificazione dell’immagine, legata ai valori culturali della società e all’interazione fra oggetto fotografato e soggettività dell’osservatore.
Inizialmente l’immagine è uno strumento adottato dall’etnologia, dall’etnografia e dall’antropologia culturale. Solo dagli inizi degli anni ottanta del novecento, i sociologi visuali si sono riuniti nell’International Visual Sociology Association (IVSA), che pubblica una rivista semestrale dal titolo Visual Studies.
I campi di applicazione di maggior rilevanza della Sociologia Visuale riguardano il comportamento sociale e la produzione culturale, quindi lo studio delle subculture, delle forme di interazione, dell’uso degli spazi sociali urbani, del cambiamento ambientale, delle dinamiche dei gruppi e della folla, e più in generale delle forme della comunicazione visiva.
Questa branca della sociologia qualitativa considera importante l’uso di tecniche e metodi di natura iconica nella ricerca sociale (C. Cipolla, P. Faccioli, a cura di, Introduzione alla sociologia visuale, Franco Angeli, 1993) e individua il ruolo primario dell’esperienza visuale nel processo conoscitivo, tramite il dato visuale stesso. Strettamente legata all’etnografia si è sviluppata nell’ambito dell’antropologia e della fotografia-documentario, ed è rimasta a lungo al di fuori delle università sviluppando solo negli ultimi decenni un’esistenza specifica.
Per Sociologia Visuale, si intende una disciplina che abbia un apparato concettuale di riferimento capace di dare delle definizioni sistemiche. Per acquisire legittimità scientifica e quindi essere considerata sociologica, la fotografia deve attenersi ai criteri, con procedure teoricamente e metodologicamente fondate, di validità (principio di corrispondenza fra immagini e concetto) e attendibilità (credibilità tecnica), poi di comparabilità, coerenza e convergenza.
A livello definitorio, la Sociologia Visuale può considerarsi un approccio conoscitivo, che si avvale del metodo osservativo e che si muove nei microsistemi e sub-sistemi sociali, riuscendo a cogliere il mondo nella sua organizzazione naturale, nella sua fluidità, ma anche nel suo essere un mondo di significati. È di sua competenza l’analisi di tutti i fenomeni sociali che sono oggetto di osservazione – comportamenti, sociali, interazioni, luoghi, simboli, oggetti – e che vengono studiati in modo esauriente partendo da una prospettiva visuale.
Harper afferma che: “la fotografia sociologica deve essere guidata da concetti sociologici, che crescono induttivamente mano e mano che le proprie teorie vengono riviste” (D. Harper, Visual sociology, Routledge, 2012).
La ricerca sulle immagini comprende: l’interpretazione, l’identificazione dei significati simbolici delle immagini che sono state prodotte nel corso di un’attività sociale, come ad esempio tutte le dimensioni del mondo visibile e della cultura materiale; la spiegazione, il processo di identificazione e analisi dei significati simbolici/culturali/storici di immagini che sono state prodotte allo scopo di raccontare una storia, ad esempio: film di fiction, fotografie, fumetti, storie illustrate.
Per Bourdieu la fotografia è un modo di guardare, perché le immagini svolgono qui una funzione documentaria e di testimonianza mnemonica, poiché attribuiscono rilevanza a persone e cose raffigurate (P. Bourdieu, La fotografia. Usi e funzioni sociali di un’arte media, Guaraldi, 2004, or. 1965). Il pensiero di Bourdieu anticipa in parte la proposta di Franco Ferrarotti di attribuire alla fotografia il ruolo di documentazione sociologica, che diviene quindi ancora più osservativa e partecipe, non si pone in antitesi con quella classica, ma accoglie l’immagine nell’analisi e nell’interpretazione delle dinamiche sociali.
In conclusione, è centrale il dialogo con i soggetti-oggetto della ricerca, secondo metodi capaci di disvelare anche gli aspetti non immediatamente percepibili del mondo dell’altro.
Per Max Weber chi studia e osserva è già un essere culturale, dotato della capacità e della volontà di assumere una posizione nei confronti del mondo e di attribuirgli senso, facendo sempre riferimento al proprio bagaglio assiologico: “ogni conoscenza della realtà culturale è sempre […] una conoscenza da punti di vista particolari” (M. Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, 2003, or. 1922).
Questo tuttavia non significa che l’analisi delle scienze della cultura possa dare luogo solo a risultati soggettivi, poiché l’oggetto di indagine è determinato dalle idee di valore che dominano il ricercatore e la sua epoca; nel metodo della ricerca il punto di vista è decisivo per la selezione degli strumenti concettuali da impiegare.
I problemi che riguardano gli individui sono sempre nuovi e diversamente configurati, e rendono fluido e senza soluzione di continuità l’ambito cui attribuire senso.
L’immagine restituisce un tratto unario ed alle stesso tempo trattiene il resto dell’altro, la parte folle che sfugge alla consapevolezza.Usare e produrre le immagini ci restituisce un mondo intero
Complimenti per il tema