“Presenza, esserci nel mondo, esserci nella storia sono espressioni equivalenti per designare la modalità umana in atto di distinguersi dal vitale biologico e di aprirsi alla distinzione delle (…) potenze operative creatrici di cultura e di storia: l’utile, la vita morale, l’arte, il logos”.
Nel 1963 alcuni studiosi parteciparono ad una tavola rotonda, pubblicata su: “Il Giorno” del 3 aprile, per affrontare un tema importante: la frattura tra le due culture, umanistica e scientifica nel nostro Paese. Allora era molto rilevante il problema di definire teorie interdisciplinari, ma la realtà dei fatti era legata a discussioni accademiche settoriali, in cui ognuno faceva emergere l’importanza del proprio punto di vista. Il dibattito fu moderato da Andrea Barbato e vide un confronto tra de Martino, Lombardi, Perrotti e Sapegno.
Ernesto de Martino affermò che le distanze erano dovute alla mancanza di un approccio complessivo, non tralasciando di sottolineare che la nostra civiltà non si confronta con quelle che non fanno parte della tradizione culturale greca e romana. Concluse:
“Quando la scienza si riduce a tecnicismo e non problematizza il suo orizzonte sociale ed umano, e quando l’umanesimo coltiva un ideale letterario dell’uomo nei limiti divenuti oggi angusti delle esperienze culturali inaugurate dal mondo classico, continuano ad esercitare la loro nefasta influenza due tipi egualmente pericolosi di intellettuale, e cioè lo scienziato indifferente all’impiego antiumano delle scoperte tecniche, ma anche l’umanista disposto a perdere, per i suoi feticci, l’uomo concreto”.
Le posizioni di de Martino, che credeva fossero necessari studi sistematici e complessivi per conoscere la cultura di una società, erano già presenti nel primo importante lavoro: “Naturalismo e storicismo nell’etnologia”, che segnò l’inizio di una ricca riflessione critica nel campo delle teorie etnologiche dominanti in ambito internazionale; in seguito, ne: “Il mondo magico”, sviluppò l’idea di una etnologia che, attraverso lo studio dell’altrui civiltà, mettesse in rilievo gli elementi di criticità della cultura del mondo cosiddetto civile. Sviluppando la sua speculazione etnologico-religiosa, indagò infine anche i vari aspetti della psicologia e delle scienze psichiatriche, che costituiranno l’ultimo periodo della sua attività di studioso, ed in particolare l’opera pubblicata postuma: “La fine del mondo”.
(…)
Le origini, il significato, il persistere di credenze e pratiche magico-religiose arcaiche tra i ceti rurali del sud lo portarono a raccogliere una quantità di documenti, relativi alle manifestazioni magico-religiose, che si concretizzarono in tre importanti opere. Oggetto delle sue ricerche furono: il complesso mitico-rituale della fascinazione in Lucania: “Sud e magia”; le persistenze del pianto funebre in Lucania: “Morte e pianto rituale nel mondo antico”; il tarantismo del Salento: “La terra del rimorso”.
In questa trilogia di opere, che compiono studi di storia sociale, religiosa e culturale, condotti sulla base di inchieste, interviste, osservazione partecipante, il tema del riscatto dalla “crisi della presenza” è avvertito appieno ed avviene attraverso una serie di riti che riattualizzano alcuni miti passati, espressione di una società per secoli ridotta all’isolamento ed emarginata e sfruttata dai poteri centrali e delle istituzioni ufficiali.
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