“Il primo libro della storia nacque quando le parole – ancora poco più di un soffio vergato – trovarono rifugio nel midollo di una pianta acquatica. E in quel modo, contrapposto ai suoi antenati inerti e rigidi (pianta, fango, legno metallo), il libro divenne subito un oggetto flessibile, leggero, pronto a viaggiare e vivere avventure”. (I. Vallejo, “Papyrus”, Bompiani Overlook, settembre 2021, or. 2019, p. 47)
La citazione riguarda il papiro, il primo libro, che ha determinato lo sviluppo della cultura e delle civiltà. Atene, Alessandra, Roma: queste città sono al centro delle riflessioni di una scrittrice spagnola quarantenne, che scrive in una forma chiara e scorrevole un volume, definito da Mario Vargas Llosa un capolavoro, in cui oralità, atmosfere magiche, senso di estraneazione ed al tempo stesso di immersione proiettano in una lettura che attrae ed affascina. Si tratta di “Papyrus”, di Irene Vallejo (con sottotitolo: “L’infinito in un giunco. La grande avventura del libro nel mondo antico”), da poco in italiano, dopo il successo riscontrato alla sua uscita nel 2019 in Spagna con ben quaranta edizioni e la pubblicazione in trentotto Paesi. È non solo un libro, ma l’avventura di tante persone che nel corso dei secoli hanno salvato e protetto i libri; è un lavoro che guarda allo sviluppo del sapere e della cultura; è un viaggio personale dell’autrice che passa dall’autobiografia personale alla costruzione di un racconto avvincente, un intreccio di aneddoti, di pagine che scorrono veloci. Vallejo è anche una filologa, che divulga però in maniera chiara e a tratti divertente.
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