Smart working
Dal taylorismo al telelavoro, dalle società pre-industriali a quelle post-industriali, il sociologo Domenico De Masi, affrontando gli ambiti di questo nuovo approccio, è certo che si tratti di una rivoluzione inarrestabile.
di Pasquale Martucci
“Per anni i manager e soprattutto i gestori del personale sono stati disposti perfino a ridurre i profitti dei loro azionisti per evitare innovazioni come lo smart working, che incrementa la produttività ma allenta la presa fisica, tangibile, dei capi sui dipendenti. Ciò che essi hanno temuto più ancora della competitività delle aziende concorrenti, è che la cultura potesse diluirsi nella cultura sociale, che lavoro e vita potessero mescolarsi in una misura creativa ed esuberante dove la produzione di ricchezza, di sapere, di allegria e di senso potessero intrecciarsi tra loro e finalmente superare la separazione alienata tra i diversi mondi vitali in cui tutti transitano”.
Questa citazione è di Domenico De Masi verso la conclusione di un recente e corposo volume: “Smart working”, che ha un sottotitolo molto esplicito: “la rivoluzione del lavoro intelligente”. E ciò è in linea con le sue tesi, riguardanti la necessità di un passaggio epocale del mondo del lavoro da un sistema in cui lo stesso è al centro rispetto alla vita dell’uomo, ad un altro in cui lo sviluppo della società e della sua economia rivaluti l’esistenza umana. In quelle stesse pagine è ripreso un concetto, già in precedenza trattato diffusamente, partendo dai suoi interessi quale sociologo del lavoro per approdare a sistemi differenti in una società complessa e tecnologica: quello di “ozio creativo”, inteso come lo stato di grazia che si raggiunge quando si fa qualcosa che ci dà la sensazione di lavorare, studiare, giocare.
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