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«Gli uomini in origine erano “doppi” e, essendo arroganti, giunsero ad attaccare gli dei. Zeus, anziché sterminarli, preferì dividerli a metà, perché fossero più deboli. Ma proprio perché in origine erano un unico individuo, le due metà continuarono a cercare la loro parte complementare…». (1)

 

Il doppio (duplus, due volte tanto) è il composto di due parti, due quantità uguali, e si riferisce a cose o a persone strettamente legate e coinvolte l’una nelle vicende dell’altra. Connesso a questo termine spesso ci si riferisce a maschera oppure persona, proprio perché quest’ultima pare che in origine indicasse la maschera utilizzata dagli attori teatrali per dare all’attore le sembianze del personaggio che interpretava. Se il termine persona proviene dal latino persōna (maschera), e questo probabilmente dall’etrusco phersu (maschera dell’attore, personaggio), il quale procede dal greco πρóσωπον (prósôpon), la maschera in tutte le culture ha rappresentato il senso del nascondere o dissimulare il proprio reale aspetto, esercitando la funzione magico-rituale, bellica, legata allo spettacolo, a scopo di divertimento, o semplicemente per non farsi riconoscere. Procedendo oltre, pare che un’altra prospettiva etimologica sia di derivazione preindoeuropea: il termine maschera sarebbe masca (strega, fuliggine, fantasma nero, finto volto), di origine provenzale o latino medievale, anche se questa parola era diffusa nelle zone del Piemonte e della Liguria e potrebbe essere corrispondente al masque francese o mask inglese. (2) Giovanni Battista Bronzini introduce anche il termine larva, che rimanda a spettro e anche a maschera, connessione tra i due concetti, intendendo soprattutto le metamorfosi. (3)

Devo lo spunto di queste riflessioni al lavoro di Osvaldo Marrocco, che ha messo in connessione il “doppio” con la “maschera” nel Carnevale di San Mauro Cilento (4).

Se nel Carnevale si realizza un’identità umana che si confronta con un vivere contraddittorio, con al centro il conflitto bene e male, ragione e istinto, è la stessa comunità organizzata che lascia spazio ad un aspetto duale, individuato soprattutto nello smarrimento della coscienza, nel travestimento, nell’altro da me. In questa festa si manifesta la condizione del ribaltamento dell’ordine sociale, come riportato negli scritti di Annabella Rossi e Roberto De Simone. (5) Qui è rilevata la funzione eversiva e liberatoria sia a livello collettivo che individuale: nel primo caso, si manifesta in differenti forme un disagio socio-economico; a livello individuale si evidenziano problematiche di tipo psicologico, quasi sempre inconsce.

Nel Carnevale di San Mauro Cilento c’è proprio la maschera della “doppia persona”, un manichino montato sulla schiena dell’attore che interpreta il ruolo, e che si muove in maniera ricurva: sono due personaggi, uno umano, che prevale nella parte della testa, e l’altro un fantoccio. Attaccati l’un l’altro, indossano maschere mostruose. La doppiezza è riscontrata in una stessa persona, che al tempo stesso rappresenta la divisione tra umano e non umano: è una divisione che produce ambiguità, antagonismo, il giorno e la notte, il mondo terreno e l’aldilà, le differenze tra gli uomini. La “doppia persona” potrebbe anche essere una doppia forza per scacciare il male. In tal senso, significherebbe ripercorrere la funzione apotropaica, ovvero allontanare il male con atteggiamenti esorcizzanti, attingendo dal mondo esoterico e del simbolismo, per tenere lontano la negatività. (6)

La maschera viene indossata nelle società di interesse etnografico in funzione magico-rituale, per rendere simbolicamente presente un’essenza divina o demoniaca, o per scopi bellici, al fine di incutere terrore al nemico; è strettamente legata ai valori culturali dei singoli contesti comunitari, dove vi è l’uso di travestimenti, ornamenti, pitture corporali e tatuaggi. La sua funzione si esprime attraverso l’insieme delle danze, della musica, delle azioni dei personaggi che si muovono intorno ad un pubblico attento e partecipe. In tale accezione, il significato di una maschera è perciò inserito in una complessa trama di relazioni simboliche e di valori culturali specifici di una società. L’interesse degli antropologi riguarda il ruolo che esse svolgono all’interno di un sistema di simboli e di significati culturali e le relative connessioni con la cosmologia e il patrimonio mitologico. Le maschere hanno lo scopo di ricollegare la cerimonia con il tempo mitico delle origini, ove ebbero luogo gli avvenimenti che hanno determinato l’ordinamento dell’universo e della società nella sua forma attuale. (7)

Per parlare di doppio, credo che occorra confrontarsi con antitesi e differenze: quelle legate all’idea comunitaria, “primitiva”, dunque sociale; quelle della condizione umana attuale, che necessariamente sfocia nell’individuale, ascrivibile a forme identitarie moltiplicate e figure multiformi. Non c’è cioè l’identità bensì le sue alterazioni, che possono tradursi nella disgregazione dell’essere condannandolo all’incapacità di riconoscersi in un’unica personalità, presentando due o più stati distinti di personalità separate. (8)

In quest’ultima accezione, il “doppio” riguarda le alterazioni della personalità, che riconduce al nostro opposto complementare che è separato ma ci accompagna durante tutta la vita; è quel fratello gemello che si sogna e di cui si ha anche terrore; è l’individuo che si confronta spesso con l’immagine di sé, e può produrre una terribile angoscia, la dissoluzione della realtà dell’individuo, la distruzione del suo mondo. (9)

Il doppio si manifesta nella sua natura gemellare, nell’immagine riflessa, nella condizione di una persona/maschera che si rapporta con ciò che è di esterno, la società e la relazione con l’altro da sé. Vediamo dunque la presenza di una dicotomia interna all’essere umano: l’immagine fisica del doppio assume valenza simbolica al fine di rappresentare questa duplice natura, che può essere interpretata in chiave dissociativa, di scissione o, allo stesso tempo, come meccanismo di difesa.

Émile Durkheim sostiene che nella società l’individuo accetta determinati comportamenti e orienta le sue scelte. Se nel contesto sociale possiamo distinguere la coscienza individuale e quella collettiva, è quest’ultima che si dà una serie di regole, credenze e sentimenti comuni condivisi dai membri di una società. Maggiore è la coscienza collettiva e maggiore è la coesione sociale. Questa posizione, che è quella tipica delle società di un tempo, parte dal presupposto che la società trascende l’individuo, e la comunità è fondata su rapporti di intimità, riconoscenza, condivisione. L’uomo è teso tra due poli opposti: da un lato la sua individualità, dall’altro il suo essere sociale; solidarietà organica (la prima) e solidarietà meccanica, quella dove prevalgono gli elementi comunitari. (10) Per il sociologo francese l’uomo necessita della società per essere migliore: la sua appartenenza deriva dallo sviluppo di una coscienza sociale che gli permette di comprendere di essere una parte del tutto. In questa condizione, il diritto è repressivo, e quando viene violato prevede una pena perché causa un danno alla collettività. É la natura morale della società, ovvero la trascendenza del sé a vantaggio del sociale. Nella sua ricerca sulla storia delle religioni, individuò infatti negli elementi della religiosità l’espressione della volontà sociale, che si concretizza nel concetto di sacro, inteso come “separato” dalla realtà che gli si oppone, il profano. Durkheim (11) descrive la religione come “eminentemente sociale”, in quanto fondata sul sistema solidale di credenze e di pratiche relative a cose sacre. L’esempio più evidente è il suicidio, in cui la responsabilità deriverebbe da una scarsa integrazione dei singoli attori all’ordine del sistema; non si analizza il problema derivante da uno stato psicologico, bensì si osserva la scarsa capacità di porsi in linea con le dinamiche sociali. Per Durkheim, le condizioni soggettive diminuiscono o aumentano la probabilità del suicidio. Per esempio: i cattolici si suicidano di meno rispetto ai protestanti; le donne sposate meno delle nubili. (12)

Date queste due dicotomie (individuo/società), ripropongo ancora qualche esempio di come nei miti antichi la condizione umana del doppio sia molto presente. Scrive François Lissarague (13) che è la lingua greca ad aver riservato un posto ad un nuovo intermedio, il “duale”, che unisce tra loro due elementi, due persone, “per farne un tutto”. In quella lingua, le figure gemellari tracciano il duale nel passaggio tra sfera naturale e simbolica: la concordia tra due personaggi è già sufficiente a suggerire la loro gemellarità. Si tratta di rilevare le sfumature del doppio, che riconducono alle questioni identitarie, al rapporto con l’altro più vicino. Il riferimento di Ilaria Sforza è all’uso onirico delle coppie che non sono simmetriche: è il rapporto ad esempio tra eroe e suo doppio, in cui il duale, nel caso del combattimento, e qui il riferimento è all’omerica Iliade, “presenta tratti formali che legano tra loro due figure antagoniste, come in uno specchio”. (14)

Il doppio riguarda tutti i popoli che hanno sempre avuto a che fare con dicotomie: giorno/notte, vita/morte. Riferendosi ad Omero, si osserva l’impiego del duale per figure gemellari inserite in un ordine noetico. La conoscenza in questo modo sarebbe intellettiva nel senso aristotelico, oppure rappresenta l’elemento soggettivo dell’esperienza degli atti che fanno cogliere gli oggetti (percepire, ricordare, giudicare, immaginare), che possono coesistere o sovrapporsi all’esperienza vissuta: l’erlebnis di Husserl. Per Platone era il potere conoscitivo della mente, il grado più alto del sopra, le idee e i valori: l’intelletto che ha la capacità di legare i concetti. È la psiche, l’immagine del divino a costituire la vera essenza dell’uomo, mentre il corpo e semplice apparenza. (15)

Qui l’ordine fisico e simbolico è l’esempio di intersezione di fenomeni che impiegano la parte coincidente: il gemello, il seguire immediatamente, l’aderire strettamente a qualcuno, l’essere uguale o intimo a qualcuno o a qualcosa. La Sforza propone il mito del rispecchiamento riflessivo: Narciso e la sua immagine, nel raddoppiamento riflessivo, permetterebbe “lo schiacciamento dell’alterità nell’identità”. (16) Ancora a proposito di Narciso, esisterebbe un mito meno noto che tuttavia pone in rilievo “l’implosione della soggettività nel riflessivo”. Lo specchio è oggetto che appartiene alla donna, alle figure femminili, ed allora Narciso potrebbe essersi innamorato non di se stesso ma di sua sorella gemella morta, una gemellarità naturale come sogno della persona amata. (17)

Omero, nell’Iliade, riporta molti esempi di duale negli eroi, che compiono azioni condivise, sono personaggi identitari: messaggeri/scudieri, oppure eroe/scudiero, qui in una accezione complementare. Pensando ad Achille e Patroclo, che costituiscono una coppia di gemelli simbolici, emerge la dualità complementare a dimostrazione che il valore è dato dalla collaborazione tra due eroi, anche se nella realtà sono eroe e scudiero. È dualità e raddoppiamento: Patroclo è di stirpe inferiore ed assume dunque non la funzione di eroe, anche se in seguito avviene lo scambio di ruoli, in cui lo scudiero entra in guerra non come se stesso, ma come Achille. Nel morire di fatto pronuncia la morte dell’eroe, attestando una associazione tra i gemelli e la morte. Per specificare ancora meglio, il problema dell’inversione dei ruoli si verifica con la morte: Achille si rivolge a lui e ne sancisce la superiorità, anche se era stato meno autorevole in vita; del resto il Pelide, privato del suo doppio, è destinato ben presto a morire. Le ossa si trovano insieme nella stessa urna, stabilendo una integrazione fisica e simbolica; la loro storia indica che anche le differenze sociali non impediscono una “reciprocità relazionale”, una complementarità caratteriale oltre che eroica, una gemellarità simbolica. (18)

Nelle società primitive, l’eliminazione del doppio portava alla liberazione dell’individuo, mentre in quelle moderne è la moltiplicazione che porta alla negazione dell’individuo, alla sua alienazione. Il doppio veniva creato ed eliminato per mezzo di un feticcio il quale finiva con l’accogliere in sé tutte le negatività del soggetto. Attraverso questo rito il soggetto cresceva, spogliato finalmente non tanto dei suoi limiti quanto dei suoi tabù. Tale rito era necessario per l’inserimento all’interno della società e come passaggio verso l’età adulta: simboleggiava la presa di coscienza di un ruolo malvagio insito nell’uomo, che deve essere mediato per permettergli di vivere nella comunità. (19)

Il doppio è dunque capace di incarnare le caratteristiche della persona stessa. Non a caso il sacrificio di figure antropomorfe serve ad eliminare negatività interne a quella che potrebbe essere definita la “figura originale”, l’essere umano da cui il doppio prende le misure. Dal punto di vista antropologico, questo tema è stato sempre presente: i gemelli, l’ombra, il riflesso, lo specchio, sono solo alcune delle espressioni di questo “altro da sé” che mantiene col soggetto un legame forte.

Gli studi sul folklore riportano come nelle popolazioni primitive si realizza una interpretazione positiva del doppio, inteso come ombra, come un essere spirituale ma reale che protegge e rafforza la comunità. Nelle “culture primitive” il doppio viene esorcizzato attraverso una serie di azioni: si fa particolare attenzione a non lasciare cadere la propria ombra su certi oggetti; si evita con cura che la propria ombra possa essere calpestata; si convive con l’ombra e si fa attenzione a come trattarla. (20)

Procedendo in tal senso, l’ombra, nella sua accezione positiva, può essere intesa come spirito tutelare, simbolo di fecondità. Sarebbe anche la rappresentazione allegorica della patria, della famiglia, della buona condotta sociale, e la perdita dell’ombra sarebbe l’assenza di tutte queste cose. Esiste anche l’identificazione di ombra e anima: Taylor fa l’esempio degli indiani algonchini che traducono con “nahib” sia il termine ombra che anima ma anche immagine. Per Frazer, nella Nuova Guinea Britannica con “arugo” si indica lo spirito o l’anima di un defunto, ma anche l’ombra e il riflesso. Gli abitanti delle isole Figi ritengono che l’uomo abbia due anime: una scura, nella sua ombra, che scenderà all’Ade, e una chiara, che è l’immagine riflessa sulla superficie dell’acqua o nello specchio. Dunque, l’ombra sarebbe la propria anima, un monismo primitivo che richiede l’oggettivazione dell’anima umana, in quanto essa è la copia esatta del corpo. (21)

Andando alle società attuali, il doppio è qualcosa che ci disturba, scuote i nostri sogni, ci rende irrequieti. Si tratta di una condizione costante e produce due effetti apparentemente contraddittori: da una parte opera ai danni del soggetto, condannandolo al fallimento; dall’altra realizza i suoi desideri più reconditi, agisce come il soggetto non oserebbe mai, o come la sua coscienza non gli permetterebbe mai di agire. (22)

Otto Rank fu tra gli assistenti e allievi di Sigmund Freud. Pubblicò: Il doppio, nel 1914 sul terzo numero della rivista “Imago”, edito in forma di libro nel 1925. È stato il primo filosofo a diventare psicoanalista e ad applicare la sua ampia conoscenza di miti e opere letterarie alla psicoanalisi, operando un parallelismo tra il mondo intrapsichico del nevrotico e quello dell’artista. La sua opera più significativa è stata: Il trauma della nascita (23), dove ha rilevato che la nascita sarebbe il primo trauma dell’essere umano: dopo la separazione dalla figura materna si realizza il passaggio da un ambiente sicuro e protetto ad uno insicuro ed avverso. Il trauma della nascita produce angoscia nevrotica e di conseguenza non fa realizzare quello che è definito artista, una persona problematica, in fuga della realtà e dilaniato da conflitti. Il nevrotico è artista in quanto predisposto ad un’esperienza totale, ma diventa “artista mancato” perché impedito dalla paura di mettere in atto la propria predisposizione. Per Rank la personalità dell’artista riesce a trovare un equilibrio tra pulsioni e realtà esprimendole nella creazione, sapendosi porre, a differenza del nevrotico, in un contesto collettivo. É la realizzazione di una analogia con gli antichi che intendevano qualsiasi comportamento come qualcosa che proveniva dal di fuori: le muse, il daimon, gli spiriti che si impadronivano dell’artista e gli portavano l’ispirazione. (24)

Sulla questione del doppio, Rank produrrà molti esempi proprio a partire dalle figure di artisti ed attirerà l’interesse di Freud.

Prima del filosofo/psicanalista, nell’immaginario del doppio si erano concentrati gli aspetti più destabilizzanti, destrutturanti e distruttivi della psiche, non prestando attenzione a ciò che le culture precedenti, primitive, avevano trasmesso. Il duplice costituiva il compagno, il sosia, il gemello, che permetteva di avere un approccio differente al mondo. Con il Romanticismo e poi la Psicanalisi, l’anima dell’uomo occidentale trova nel doppio una forza che prima era rimasta in ombra. Per Jung, esiste un inconscio collettivo, cioè una struttura psicologica di base, costituita da archetipi condivisi dall’intero genere umano, modelli innati a cui appartiene anche la maschera e la sua funzione sociale. Il rapporto dialettico tra gli archetipi, opposti e interiorizzati (Animus-Anima, Persona-Ombra), generano, a loro volta, le dinamiche psichiche individuali. Così l’Ombra, per Jung, è la parte oscura (ma non necessariamente negativa, carica di energie creative) che l’individuo generalmente ignora. (25)

Rank intendeva il doppio come un simbolo dell’amore che l’io prova per se stesso; l’incapacità di amare coincide, infatti, con uno sviscerato amore narcisistico per la propria immagine e per il proprio io, in una condizione di egocentrismo che impedisce di poter amare un’altra persona. Il riferimento è ad Hoffmann (26), che aveva scritto un racconto in cui affrontava il tema dell’ambiguità e della regressione psicologica che riportava in vita gli incubi infantili del protagonista. L’atteggiamento erotico verso il proprio io conduce l’individuo a scaricare tutto sul suo alter ego; lo stesso narcisismo viene rimosso o attraverso la paura e la ripugnanza per la propria immagine, oppure attraverso la perdita dell’ombra e del riflesso.

Freud riprende il doppio e lo riconduce al perturbante. In quel saggio, ci sono le dinamiche tipiche del gioco di rispecchiamenti: la regressione a momenti evolutivi in cui non sono ancora nettamente tracciati i confini tra l’io e gli altri, tra mondo interno e mondo esterno; il ritorno involontario e la ripetizione non intenzionale di situazioni già vissute. Il padre della psicanalisi chiarisce le ragioni per cui l’incontro con il doppio produca emozioni angosciose, di turbamento e perfino di terrore: il termine tedesco “unheimlich”, che significa perturbante, è il contrario di “heimlich”, tranquillo, confortevole, fidato, intimo. Tuttavia, per perturbante, Freud intende anche un secondo significato di “heimlich” (“tenuto in casa”, “nascosto”): si tratta di termini non esattamente antitetici l’uno rispetto all’altro ma comunque appartenenti a due ambiti sicuramente in contrasto tra di loro. Il termine “heimlich” presenta, dunque, una curiosa ambivalenza di significato, che induce a concepire il perturbamento come risultato dell’unione di estraneità e familiarità, in una sorta di “dualismo affettivo”. È il non nascosto, è tutto ciò che non dovrebbe essere rappresentato e che dovrebbe restare segreto, intimo, ma che invece è riaffiorato, riemerso; è l’estraneo segretamente familiare che ci perturba, ci mette in uno stato di incertezza e di inquietudine. (27)

Rank percorre il doppio nell’arte e nel folklore per produrre una serie di riflessioni su questi temi. Infatti le creazioni letterarie esaminate inquadrano un doppio misterioso che “si scinde dall’io per diventare autonomo e visibile (ombra, riflesso)”, individuando nei sosia figure reali che si contrappongono l’un l’altra facendo sovrapporre i loro destini. (28)

Già nel teatro ellenico, con Plauto il doppio assume fama e importanza, diventando un topos ricorrente in numerosi autori teatrali successivi. La commedia più famosa incentrata sul tema del doppio è quasi sicuramente: I Menecmi, in cui sono posti in essere gli equivoci che portano scompiglio e confusione in scena, ribaltando costantemente le convinzioni del pubblico sull’identità dei due fratelli separati alla nascita e involontariamente rivali. È da citare anche l’Anfitrione, tragicommedia di inquietante ambiguità, in cui Giove e Mercurio prendono le sembianze del protagonista e del suo schiavo, per vincere il pudore dell’amata di turno. Da qui deriverà il termine “sosia”. (29)

Altri famosi scrittori rilevano nelle loro storie il ruolo del doppio. (30)

Intorno al tema del doppio, si inserisce la poetica dell’umorismo di Pirandello (31) che intende il limite ontologico dell’uomo che da sempre vive in un mondo privo di senso e che, tuttavia, si crea una serie di autoinganni attraverso i quali cerca di dare significato all’esistenza. La spinta anarchica delle pulsioni vitali costringe il soggetto ad oltrepassare le apparenze, a rifiutare le costruzioni ideali e ritrarsi dal mondo in maniera diretta e sincera, senza temere quanto possa sembrare sconveniente vivere nella “forma”: si riduce a una “maschera” (o a un “personaggio”) che recita la parte che la società esige da lui e che egli stesso si impone attraverso i propri ideali morali.

Un discorso interessante è legato a Renè Magritte che nello specchio e nella sua ambiguità vede la difficoltà dell’uomo a riconoscersi come soggetto unico e compatto. In un importante dipinto (32), si nota un uomo elegantemente vestito, presumibilmente giovane, che vediamo solo di spalle e che si guarda allo specchio. Lo specchio, tuttavia, non riflette il suo volto ma la sua nuca e il resto del corpo, fino a metà dorso. É come se l’uomo fosse visto due volte di schiena, una mentre si specchia e l’altra mentre la sua immagine riflessa guarda nella stessa direzione, sempre contraria all’osservatore.

Legato al doppio c’è anche la maschera che si indossa nel palcoscenico della vita quotidiana, in cui ci si spoglia dalla parte negativa, si nasconde ciò che siamo in realtà, sia in senso fisico ma soprattutto psicologico. In questo caso, si tratta di indossare una “maschera figurata”, simbolo di fuga, alienazione, ma anche di mistero. Il rapporto dell’umanità con la maschera è piuttosto complesso. Essa risponde alla necessità di vincere la paura per tutto ciò che trascende la volontà degli uomini: l’alterità della maschera non risponde alla necessità di essere altro (da sé) nelle relazioni sociali, ma di essere altro nei confronti della società stessa.

La maschera affronta simbolicamente un grande problema metafisico. Essa insegna che si può “essere simili”, vale a dire che si può puntare sulle tendenze verso l’unità e invertire quelle verso la dispersione. Imitare, assomigliare, cogliere il simile si pongono come azioni ricche di sacralità in quanto comportano di tornare alla vivente unità del reale scoprendo via via la strada dell’identità e della convergenza fra le cose.

La vita in sé è puro teatro e la maschera è, nel modello di Erving Goffman “facciata personale”, che si coniuga con la sua capacità di modellarsi in base all’“ambientazione”. Cioè, la maschera cambia secondo il contesto e lo spazio fisico in cui agisce. (33)

Secondo il sociologo, la vita intera è vissuta come sul palco di un teatro dove ognuno interpreta una parte, complementare a quella di tutti gli altri individui (e di ogni altra maschera) con cui interagisce. Se nel teatro esiste un patto di finzione tra pubblico e attore, nella vita reale viene accettato meno, poiché ogni maschera vorrebbe che gli altri interpreti recitassero a viso scoperto. In un mondo nel quale tutti (nessuno escluso) recitano una parte (o più parti), i personaggi si adattano alla cultura del mondo e del tempo in cui agiscono.

Alessandro Pizzorno ha scritto un saggio (34), in cui si interroga sui modi in cui simboli, rituali, forme artistiche e oggetti quotidiani mediano tra ruolo e persona, tra esperienze intime e loro rappresentazione pubblica. È interessante soprattutto la sottolineatura non del nascondimento ma del rivelamento, in cui si sviluppa un rapporto tra chi indossa una maschera e chi guarda, attivando dinamiche relazionali intorno alle emozioni e ai ruoli che le persone assumono, che siano spettatori o attori.

La persona nascosta interrompe la propria identità, realizzando un vuoto sotto di sé, evitando espressioni e comunicazioni con l’altro. Ma, nonostante ciò, cerca comunque una nuova identità che si produce negli sguardi degli altri; una presenza che tra gli altri riconosce la propria presenza: il nascondere è un rivelare a coloro che guardano, un attestare la propria presenza sociale.

La “doppia persona”, nel Carnevale di San Mauro Cilento, certamente subisce l’influenza di tutte queste dinamiche che parrebbero oscure, ma che invece possiamo rilevare legate alla condizione umana che si libera dalle sue follie e accetta il duale, un meccanismo che erroneamente le nostre società cercano di nascondere.

 

 

Note:

 

  1. Dal racconto di Aristofane ne: Platone, Simposio, La Nuova Italia, 1990.
  2. Voce: Maschera, in vocabolario on line, https://www.treccani.it.
  3. Bronzini G.B., Dalla larva alla maschera, in Bettini M., a cura di, “La maschera, il doppio, il ritratto”, Laterza, 1991, pp. 61-84.
  4. Marrocco O., ‘A màschkarata, Digital Press, 2021.
  5. Rossi A., De Simone R., Carnevale si chiamava Vincenzo, De Luca, 1977.
  6. Marrocco O., ‘A màschkarata, cit.
  7. Vernant J. P., Figure, idoli, maschere, Il Saggiatore, 2018, or. 1990.
  8. Dissociative Identity Disorder (DID)DSM-5.
  9. Freud S., Il Perturbante, Theoria, 1993, or. 1919.
  10. É. Durkheim, La divisone del lavoro sociale, Il Saggiatore, 2021, or. 1893.
  11. É. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, Morcellana, 2020, or. 1912.
  12. É. Durkheim, Il suicidio. Studio di sociologia, Rizzoli, 2014, or. 1897.
  13. Prefazione al volume di Ilaria Sforza, L’eroe e il suo doppio, Edizioni ETS, 2007.
  14. Sforza I., L’eroe e il suo doppio, cit.
  15. Vernant, J. P., Psychè: simulacro del corpo o immagine del divino?, in Bettini M., “La maschera, il doppio, il ritratto”, cit.
  16. Sforza I., cit.
  17. Sforza I., cit. Cfr.: Rank O., Il doppio, Sugarco Edizioni, 2022.
  18. Sforza I., cit.
  19. Taylor E. B., Alle origini della cultura, Ist. Editoriali e Poligrafici, 2000, or. “Primitive Culture”, 1871.
  20. Rank O., Il doppio, cit.
  21. Ivi, pp. 75-76.
  22. Rank O., Il trauma della nascita, Sugarco Edizioni, 2018, or. 1924.
  23. Jung C. G., Gli archetipi dell’inconscio collettivo, Bollati Boringhieri, 1977.
  24. Hoffmann E.T.A., L’Uomo della sabbia e altri racconti, Mondadori, 2010, or. 1815.
  25. Freud S., Il Perturbante, cit.
  26. Rank O., Il doppio, cit.
  27. Plauto T. M., Anfitrione-Bacchidi-Menecmi, Garzanti, 2004.
  28. Cito i racconti di alcuni scrittori che hanno affrontato il tema del doppio: William Shakespeare ne: La commedia degli errori, Garzanti, 2021, or. circa 1594; Carlo Goldoni ne: I due gemelli veneziani, Feltrinelli, 2020, or. 1747; Fëdor Dostoevskij, ne: Il sosia, Feltrinelli, 2015, or. 1846; Robert Louis Balfour Stevenson, ne: Lo strano caso del dottor Jekyll e di mister Hyde, Mondadori, 1993, or. 1886; Oscar Wilde ne: Il ritratto di Dorian Gray, Feltrinelli, 2013, or. 1890; Italo Calvino ne: Il visconte dimezzato, Mondadori, 2023, or. 1951; Luigi Pirandello, ne: Il fu Mattia Pascal, Newton Compton Editori, 2014, or. 1904.
  29. Pirandello L., L’umorismo, Independently published, 2020, or. 1908.
  30. Magritte R., La riproduzione vietata (Ritratto di Edward James).
  31. Goffman E., La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, 1997, or. 1959.
  32. Pizzorno A., Sulla maschera, Il Mulino, 2008, or. 1952.

 

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