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Il I° Congresso del Partito Comunista d’Italia, quello fondativo, si svolse a Livorno il 21 gennaio 1921, dopo che i delegati della frazione comunista abbandonarono il teatro Goldoni, dove si svolgeva il XVII Congresso del Partito Socialista Italiano, e cantando l’Internazionale si recarono al teatro San Marco. (1)

Durante il XVII Congresso socialista, si affermò la corrente massimalista-unitaria, guidata da Serrati, la più numerosa e forte, favorevole all’Internazionale comunista ma con molte riserve; la corrente comunista, formata dagli ordinovisti di Gramsci e dagli astensionisti di Bordiga, appoggiati dall’Internazionale, pur giungendo seconda ebbe più della metà dei voti della componente serratiana. Infine, i riformisti di Turati, contrari ai principi dell’Internazionale, giunse molto distaccata: al Congresso il loro leader aveva ribadito con forza il rifiuto della dittatura del proletariato, della rivoluzione e della violenza delle masse, proponendo una graduale azione parlamentare riformista. Dopo quel Congresso, temendo di perdere delegati e nel tentativo di arginare la fuga della classe lavoratrice, Serrati e Turati si affrettarono ad accettare “principi e metodi comunisti”. Ma questa mossa non bastò ad evitare la scissione.

La corrente comunista dovette prendere atto della sconfitta, ma constatò anche che erano tanti i seguaci entusiasti che li appoggiavano: occorreva dunque subito fondare il Partito Comunista d’Italia, quale sezione dell’Internazionale Comunista. Al Teatro San Marco si svolse allora il I° Congresso del partito. Il nuovo gruppo dirigente fu formato: dal gruppo “astensionista” che faceva capo a Bordiga, futuro primo leader del nuovo Partito; dal gruppo dell’Ordine Nuovo di Gramsci, Togliatti, Terracini e Tasca; dalla corrente massimalista di Marabini e Graziadei; dalla stragrande maggioranza della Federazione giovanile socialista. (2)

La scissione nasceva dopo gli avvenimenti internazionali che avevano caratterizzato gli anni precedenti: in primo luogo oltre i confini italiani, dopo la Rivoluzione d’Ottobre del 1917, ci fu la nascita a Mosca della Terza Internazionale (raggruppava i partiti comunisti e si svolse dal 1919 al 1943) che intendeva esportare in tutta Europa il proprio modello, chiedendo l’epurazione delle correnti riformiste e l’assunzione del nome comunista al posto di quello socialista. Lenin era la guida che spingeva per la dittatura del proletariato, organizzata dai Soviet, in un Paese (quello russo) in cui, come affermava Trockij, vi era “la più concentrata industria d’Europa sulla base dell’economia agricola più arretrata”. (3)

I settori più rivoluzionari dei movimenti operai erano affascinati da ciò che accadeva. In Italia occorreva considerare il ruolo del Partito Socialista Italiano che, a differenza degli altri partiti europei, si era caratterizzato per un proprio atteggiamento autonomo durante la Prima Guerra Mondiale, con la parola d’ordine “né aderire né sabotare”. La situazione post-bellica fece precipitare le divisioni politiche tra le tante anime di quel partito: la destra riformista e socialdemocratica, i massimalisti, i comunisti.

Se il primo Congresso della Terza Internazionale (Comintern, o in russo Komintern) non aveva avuto modo di precisare gli aspetti più importanti di natura strategica e organizzativa, il secondo, riunito a Mosca nel luglio del 1920, decise di individuare le condizioni a cui si dovevano sottoporre i partiti per entrare nell’organizzazione. (4)

Furono così stabiliti 21 punti che, da un lato, cercavano di tracciare un solco tra i partiti comunisti e i riformisti di destra e di centro, dall’altro correggevano la deriva estremista e settaria che aveva contagiato alcuni gruppi a livello internazionale, in particolare in Germania. L’espulsione dei riformisti era conseguente alla situazione che si era creata in Ungheria, con la fusione dei comunisti con la sinistra socialdemocratica. Al punto 13 si stabiliva: “I partiti comunisti dei paesi in cui i comunisti operano nella legalità ogni tanto debbono intraprendere un’opera di epurazione (reiscrizione) tra i membri del partito per sbarazzarsi di tutti gli elementi piccolo borghesi che vi siano infiltrati”. (5)

Il partito comunista applicherà più volte il dettato del punto 13, uno dei più importanti tra i 21 punti approvati in quel II° Comintern: in Italia, il primo espulso fu Angelo Tasca a cui man mano si uniranno dirigenti non graditi al nuovo corso stalinista e alla leadership di Palmiro Togliatti; lo stesso Antonio Gramsci fu abbandonato al suo destino in carcere senza impegnarsi troppo per la sua liberazione. (6)

A settembre del 1920, in Italia l’ala più a sinistra del partito ottenne l’approvazione in Direzione di un ordine del giorno firmato da Umberto Terracini che proponeva il recepimento integrale ed incondizionato dei 21 punti, e di conseguenza anche l’espulsione dei riformisti. Tale votazione stabilì quelle che sarebbero state al successivo Congresso le due frazioni principali: quella comunista pura, guidata da Amadeo Bordiga, e quella dei comunisti unitari di Giacinto Menotti Serrati. L’esigenza di costituire un nuovo organismo portò nel mese di ottobre al consolidamento della frazione comunista, in cui si riunirono l’area che faceva capo a Bordiga, principale ispiratore ed organizzatore della frazione, il gruppo torinese de L’Ordine Nuovo, gli esponenti del massimalismo di sinistra e gran parte della Federazione giovanile. L’atto ufficiale di costituzione fu un manifesto-programma sottoscritto a Milano il 15 ottobre 1920 da Bordiga, Gramsci, Misiano, Terracini, Bombacci, Repossi, Fortichiari e Polano. (7)

La mozione che i comunisti avrebbero presentato al congresso socialista fu ratificata definitivamente in un Convegno svoltosi al Teatro comunale di Imola, tra il 28 e il 29 novembre 1920: la più conosciuta mozione di Imola. Il testo mirava alla trasformazione del Partito socialista in Partito comunista, da cui sarebbe stato necessario escludere i concentrazionisti e comunque tutti coloro che al Congresso avrebbero votato contro il programma comunista e contro l’osservanza completa delle 21 condizioni d’ammissione all’Internazionale.

È importante ricordare come giunsero alla svolta di Livorno le tre personalità più rappresentative e che cosa accadeva negli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione d’Ottobre.

Bordiga era un uomo d’iniziativa, robespierriano e dedito all’azione, proveniente dal socialismo napoletano. Per lui erano prioritari i precetti morali e i principi ideologici: era un proletario che coniugava intraprendenza e ingegno ed auspicava la “Nuova Internazionale dei lavoratori”, polemizzando con i riformisti. Gramsci aveva una preparazione filosofica e letteraria: i suoi riferimenti erano Hegel, Marx ed inizialmente Croce. Aveva ideali moderni e laici, ma era l’antitesi del tribuno. Cercava di convincere piuttosto che comandare. Nel 1914 aveva parlato di neutralità attiva ed operante, a proposito dell’interventismo nella grande guerra, forse attratto anche dalla personalità del socialista Mussolini. Poi nel 1917 contattò direttamente il movimento dei lavoratori e scrisse della rivoluzione di ottobre. Serrati era invece l’uomo dell’unità, con l’idea della necessità graduale della rivoluzione. (8)

Il Congresso di Bologna del 1918 è quello dell’attesa della Rivoluzione. Il 70% del partito socialista è su queste posizioni, con Lenin come richiamo costante. Gramsci scrive che il bolscevismo è un fenomeno storico di immensa portata, opera di avanguardie consapevoli e di masse che si muovono sulla via giusta. La dittatura del proletariato è la difesa contro la dittatura borghese che ha portato alla guerra. Nel gennaio 1919 Lenin invita i comunisti europei a partecipare ad una Conferenza per creare una nuova Associazione Internazionale dei lavoratori. Se la Prima Internazionale di Marx aveva gettato le fondamenta per la lotta per il socialismo e la seconda aveva preparato il terreno per la diffusione di massa del movimento, la terza avrebbe dovuto cominciare ad attuare la dittatura del proletariato. (9)

In Italia nel 1919 c’è tensione sociale, in quanto tutti i ceti sono in condizione di disagio e sofferenza. Aumentano gli scioperi rivendicativi per salvaguardare soprattutto il tenore di vita; ma dall’altro essi servono a creare associazionismo seguendo il modello bolscevico. Il partito socialista si affida alla propaganda ed agita le masse. In questa fase si distinguono i massimalisti, prigionieri dell’ideologia, che guardano alla prospettiva; i rivoluzionari rifiutano scelte tattiche e attendono il crollo della borghesia. Tutti però, da Gramsci a Treves, da Serrati a Bordiga, aspettano la rivoluzione. Lo sciopero è l’arma e le elezioni del 1919 diventano un successo elettorale. Ora, grazie all’influenza bolscevica, la tendenza è il superamento dei presupposti teorici del socialismo a partire dal 1892. Però i massimalisti propugnano un regime transitorio della dittatura del proletariato, creando i Consigli dei lavoratori, contadini e soldati, i Soviet. (10)

Turati non crede al successo del bolscevismo ed è contro il massimalismo dominante. La differenza è netta tra i riformisti e i massimalisti, però questi ultimi non possono che scegliere di passare con i comunisti che hanno ormai l’avallo della Terza Internazionale. Bordiga è per l’azione rivoluzionaria, Serrati però non vuole la responsabilità della scissione. Gramsci si esprime contro la piccola e media borghesia corrotta e dissoluta, la barriera che serve al capitalismo per difendere il suo potere economico e politico. (11)

Amadeo Bordiga già alla fine del 1919 e nel gennaio del 1920 si era messo in contatto con il Comitato centrale della Terza Internazionale, per informarlo sulle iniziative che aveva cominciato ad intraprendere e a divulgare attraverso un organo di stampa settimanale: Il Soviet. La frazione comunista astensionista, come essa si denominò, rifiutava le elezioni e il Parlamento come terreno di lotta politica, in una fase storica giudicata prerivoluzionaria, e sosteneva la necessità di concentrare tutte le energie del partito nella preparazione insurrezionale del proletariato. Con questo programma Bordiga mirava alla scissione. Cercò l’intesa con altre forze ostili ai riformisti e ai centristi di Serrati (tra essi si distinguevano FIGS, ordinovisti, massimalisti di sinistra) e la raggiunse, superando le divisioni soprattutto con Gramsci che era stato in precedenza tacciato di localismo, di aziendalismo e soprattutto di non comprendere il ruolo riservato al partito nel processo rivoluzionario rispetto ai consigli operai. Il leader ordinovista tentava di rinnovare il partito socialista dall’interno, pur essendo minoranza rispetto alle stesse posizioni di Lenin. Se Serrati cercava di mantenere l’unità socialista per non perdere la massa degli iscritti, da Mosca la linea era di favorire la rivoluzione e di espellere non solo i riformisti ma anche i comunisti che tentennavano, perché il “partito si rafforzerà cento volte di più se i riformisti si allontaneranno completamente dalle sue file”. (12)

È l’assenso alla linea di Bordiga per la scissione; Gramsci l’accetterà non senza riserve come soluzione inevitabile. Un mese dopo la scissione di Livorno, Gramsci dovrà accontentarsi di un ruolo subalterno per un’adesione troppo tardiva. Del resto, per lui la scissione sarà considerata “il più grande trionfo della reazione”. (13)

Serrati cerca ancora il 16 dicembre 1920 di difendere il partito e il proletariato “dall’insana smania di distruzione e di demolizione”, e il movimento socialista italiano nella sua interezza. Ma la scissione è inevitabile, perché le distanze sono incolmabili.

Con la nascita del nuovo partito, chiamato Partito Comunista d’Italia – Sezione dell’Internazionale Comunista, fu eletto un primo Comitato Centrale, nel quale erano sanciti i rapporti di forza interni: Bordiga (di fatto il capo), Grieco, Parodi, Sessa, Tarsia, Polano, Gramsci, Terracini, Belloni, Bombacci, Gennari, Misiano, Marabini, Repossi e Fortichiari. Il partito stabilirà un minuzioso progetto di statuto, dando molto rilievo all’organizzazione della struttura e curando in modo particolare gli organi di stampa che avrebbero dovuto raggiungere le masse proletarie: a Milano uscirà Il Comunista, il bisettimanale organo centrale del Partito; l’Ordine Nuovo diventerà il primo quotidiano del Partito, cui si affiancherà Il Lavoratore di Trieste. (14)

Il programma politico fu fissato in dieci punti. Al centro c’era la critica all’attuale regime sociale capitalistico che aveva dato origine all’antitesi ed alla lotta di classe tra il proletariato e la borghesia dominante (primo punto). Il secondo si occupa dei rapporti di produzione protetti dal potere dello Stato borghese, che, fondato sul sistema rappresentativo della democrazia, costituisce l’organo per la difesa degli interessi della classe capitalistica. Il terzo riguardava l’abbattimento del potere borghese che sfrutta il proletariato. Seguiva (quarto punto) l’indicazione che il partito politico, come organo indispensabile alla lotta rivoluzionaria, doveva unificare gli sforzi delle masse lavoratrici, facendo emancipare il proletariato, diffondendo nelle masse la coscienza rivoluzionaria e organizzando e dirigendo i mezzi materiali d’azione per la lotta del proletariato. Il quinto punto riguardava la critica al ricorso alla guerra, causata dalle intime insanabili contraddizioni del sistema capitalistico, le quali avevano prodotto l’imperialismo moderno ma anche rilevato la crisi del capitalismo: in questo scenario la lotta di classe non poteva che risolversi in conflitto armato tra le masse lavoratrici ed il potere degli Stati borghesi. Dopo l’abbattimento del potere borghese, recita il sesto punto, il proletariato può organizzarsi in classe dominante solo con la distruzione dell’apparato statale borghese e con la instaurazione dello Stato basato sulla sola classe produttiva, escludendo da ogni diritto politico la borghesia. Il settimo aspetto si riferisce all’organizzazione: la forma di rappresentanza politica nello Stato proletario è il sistema dei Consigli dei lavoratori (operai e contadini), già in atto nella rivoluzione russa, stabilendo l’inizio della rivoluzione proletaria mondiale e la realizzazione della dittatura proletaria. La necessaria difesa dello Stato proletario (punto 8), contro tutti i tentativi contro–rivoluzionari, può essere assicurata togliendo alla borghesia ed ai partiti avversi alla dittatura proletaria ogni mezzo di agitazione e di propaganda politica, attraverso l’organizzazione armata del proletariato per respingere gli attacchi interni ed esterni. Al penultimo punto si parla dell’importanza dello Stato proletario per attuare tutte quelle successive misure d’intervento nei rapporti dell’economia sociale, con le quali si effettuerà la sostituzione del sistema capitalistico con la gestione collettiva della produzione e della distribuzione. La conclusione, punto 10, recita così: per effetto di questa trasformazione economica e della vita sociale, con l’eliminazione della divisione della società in classi, non ci sarà la necessità dello Stato politico, il cui ingranaggio si ridurrà progressivamente a quello della razionale amministrazione delle attività umane. (15)

Per sottolineare l’importanza delle scelte compiute cento anni fa, Gramsci dirà che quel I° Congresso passerà alla storia, come è poi effettivamente accaduto, e che occorrerà distaccare comunisti e riformisti: la classe operaia dovrà necessariamente essere altra dal “parassitismo statale”, dal “capitalismo industriale e finanziario”, da tutte quelle forze che agivano “alle spalle della maggioranza del popolo lavoratore”. (16)

Gramsci, che nella fase iniziale della scissione ebbe un ruolo non di primo piano, in seguito influenzerà, con la sua visione filosofica, politica e storico-culturale, i destini di quel partito e condizionerà con le sue idee molti intellettuali, che indirizzeranno il PCI verso politiche distanti dall’iniziale concezione bordighiana. Le Tesi di Lione del 1926, scritte prevalentemente dall’intellettuale che si era formato negli ambienti ordinovisti, saranno determinanti per tracciare le linee del partito. Si posero in essere le questioni relative: ai processi di formazione e trasformazione dei partiti comunisti; all’analisi della struttura sociale italiana; alla politica della borghesia italiana; al fascismo e alla sua politica; alle forze motrici e alle prospettive della rivoluzione; ai compiti e alla costruzione del partito comunista; all’ideologia, all’organizzazione e al funzionamento del partito; alle strategie e alla tattica da utilizzare. Ciò che occorreva privilegiare era il proletariato italiano che doveva avere una funzione unificatrice e coordinatrice della società, un programma unitario, per attaccare il tessuto del sistema capitalistico e contrastare la reazione che aveva portato al fascismo. Scrive Gramsci: “la tattica del fronte unico deve continuare ad essere adottata dal partito nella misura in cui esso è ancora lontano dall’aver conquistato una influenza decisiva sulla maggioranza della classe operaia e della popolazione lavoratrice”. (17)

Il PCd’I subirà una repressione da parte fascista nello stesso anno di quelle Tesi: vedrà in carcere buona parte del suo gruppo dirigente, tra cui lo stesso Gramsci. Ma la linea era tracciata ed un nuovo gruppo dirigente seguirà quelle indicazioni negli anni a venire. (18)

In seguito, il comunismo avrà una parte importante nella nascita della Repubblica e nel suo impianto istituzionale, accompagnando per oltre mezzo secolo le battaglie per l’emancipazione dei lavoratori e influenzando in maniera preponderante la cultura italiana.

Note:

  1. P. De Sanctis, “1921. Fondazione del Partito Comunista Italiano”, in Centro Gramsci di Educazione, 24 novembre 2020.
  2. Ivi. Cfr. anche: L. Cortesi, “Le origini del PCI. Studi e interventi sulla storia del comunismo in Italia”, FrancoAngeli, 1999 (or. 1972);
  3. “Comunismo”, Istituto Enciclopedia Italiana Treccani, vol. XI – Ed. 1949, 29-34.
  4. P. Spriano, “Storia del Partito comunista italiano”, Einaudi, 1967.
  1. P. Spriano, cit. Cfr. anche: G. Galli, “Storia del Partito Comunista Italiano”, Il Formichiere, 1976.
  2. “Le 21 Condizioni per l’adesione all’Internazionale Comunista”, in marxismo.net, 17 ottobre 2019.
  3. G. Galli, cit.
  4. P. Spriano, cit., 11-17.
  5. Ivi, 18-22.
  6. Ivi, 26-28.
  7. Ivi, 30-31.
  8. Vladimir Il’ič Ul’janov Lenin, in: “Falsi discorsi sulla libertà”, 4 novembre-11 dicembre 1920.
  9. G. Fiori, “Vita di Antonio Gramsci”, Laterza, 1966-1991, 167-172. Su Gramsci, cfr.: M. Battini, “Note su Gramsci nel 1918-20”, in Rivista di Storia Contemporanea, Torino, Vol. 7, Fasc. 3, 1978; A. Gramsci, “L’Ordine Nuovo 1919-1920”, Einaudi, 1954.
  10. P. De Sanctis, cit.
  11. “Programma del Partito Comunista d’Italia”, da Il Comunista del 31 gennaio 1921.
  12. P. De Sanctis, cit.
  13. A. Gramsci, “Scritti politici” vol. terzo, Editori Riuniti, 1973, 303. Sulle Tesi di Lione, cfr. anche: AA.VV., “Le tesi di Lione. Riflessioni su Gramsci e la storia d’Italia”, FrancoAngeli, 1990; “Tesi del III Congresso del Partito comunista d’Italia”, gennaio 1926, MIA – Sezione italiana, in Archivio Gramsci.
  14. R. Sarti, “Lo scontro tra Gramsci e Bordiga e le Tesi di Lione”, Seminario, in www.marxismo.net.

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