Antonio Di Rienzo, ricercatore di cultura storica e tradizione popolare cilentana, alla fine del 1987, su “Il Mezzogiorno Culturale” (A. I – n. 7), pubblicò un saggio dal titolo: “La festa del Natale all’insegna della tradizione. Itinerario folkloristico del Cilento”. Riporto quello scritto, che rimanda ad una antichissima tradizione di cui è necessario lasciare traccia.
Potrebbe risultare difficile o per lo meno non esaustivo indicare un itinerario delle tradizioni natalizie di un territorio così vasto anche a chi da anni, per ragioni di studio, è abituato a percorrere le strade di questa contrada.
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Il Natale richiama il presepe, i pastori, le grotte, le ciaramelle, le zampogne e dappertutto nel Cilento le immagini di questa festa fanno rivivere una tradizione che , dopo un lungo cammino di due millenni, è giunta fino a noi.
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Le manifestazioni si concludono il giorno dell’Epifania quando i protagonisti attraverseranno le vie della cittadina con i loro costumi caratteristici costruiti artigianalmente. Ma il Natale oltre il Presepe, l’albero (quest’ultima una tradizione nordica importata) le vetrine dei negozi finemente addobbati, ci riporta il suono melodioso delle zampogne. Quanta importanza ricopre la musica in questa atmosfera natalizia!
Fra gli strumenti musicali (nacchere, putipù, tricche-ballacche, tamburo) di cui si faceva uso anticamente nelle feste natalizie, le più famose erano senza dubbio la zampogna e la ciaramella, due strumenti a fiato: la prima formata da una serie di canne e da un otre di pelle, l’altra (la ciaramella, dal latino ‘caramellum’, cioè bastoncino), paragonabile allo zufolo, accompagnava le zampogne ed era suonata sempre dal più giovane dei suonatori.
Tutto il Cilento interno, il Vallo di Diano e paesi quali Colliano, San Gregorio Magno, presentano una tradizione di musica di zampogna davvero invidiabile. Famosi sono gli zampognari di Cannalonga, di Piaggine, di Caselle in Pittari e tanto più quelli di Polla, di Caggiano, di Tardiano e di Montesano, dove si contano ben sette tipi di zampogne.
IL FUOCO DEI CEPPI
In tutto il Meridione si ripetono e, per così dire, ritornano a nuova vita usi e consuetudini antiche, ma nel Cilento l’attesa del prodigio della Nascita coinvolge tutti, bambini ed adulti e, comprende ogni aspetto del quotidiano dall’interscambio di auguri e di regali alla gastronomia. Da noi è largamente diffuso l’uso popolare di bruciare grosse cataste di tronchi d’albero ammucchiati nelle piazzette sin dai primi giorni di dicembre. E’ il “fuoco dei ceppi di legno” che, a seconda della località, assume nomi diversi: “‘a fòcara”, “u’ fòcaro”, “u’ ceppone” ed ora “u’ falò”.
In Toscana la “Pasqua di ceppo” serve a designare il Natale. Non tragga in inganno il termine “Pasqua” perché primieramente esso equivaleva ad una festa ebraica e solo nella terminologia cristiana indicò la festa della Resurrezione, per poi diventare sinonimo di “festa”. Significato questo che conservò nella lingua dialettale: ad esempio da noi è rimasta la frase: “Pasqua re la Befanìa”.
Quindi il “cippus”, l’antico palo di confine delle proprietà, ora diventato una catasta di legna che viene bruciata alla vigilia di Natale, può ricordare, forse, nel suo significato passato, l’antica usanza dei contadini di recarsi nei fondi demaniali a sforestare e a pascolare per conservare su quei terreni gli usi civici in vigore fin dal periodo longobardo.
Ma prima ancora il fuoco del ceppo dovette essere un rituale pagano collegato alla dea Demetra; la Madre Terra, infatti, veniva cosparsa successivamente alla notte di Natale con le ceneri del “fuoco sacro” quasi a preservarla dal male, dal freddo per garantire un abbondante raccolto. Da noi il Natale coincide col principio più freddo dell’anno quando i principali lavori nei campi sono ormai finiti. Ed il detto popolare ammonisce:
“Mo’ vene Natale cu’ le belle fieste, si nun ha’ semenato accussì riesti!”.
LA NOTTE MAGICA
E’ il periodo questo molto delicato dell’attesa della germogliatura del seme; un’attesa che è anche la speranza di un evento portentoso che con il Cristianesimo è la Nascita di Cristo. Un momento particolare che ha delle valenze magiche caratterizzato da rituali di trasmissione del potere occulto della mente. Solo nella notte di Natale, o in punto di morte, il “mago” o il contadino conoscitore di arti magiche può rivelare le formule per le fatture, il malocchio e, quindi, trasmettere la sua arte.
Come la festa di Ognissanti, quella della ricorrenza dei Morti, anche la festività della Nascita mostra il suo legame con il mondo degli inferi ed è la principale festa che rientra nel ciclo delle feste invernali.
La credenza popolare vuole che chi nasce in questa notte magica diventerà “lupomannaro”, se maschio, e “jenara” (strega) se è femmina: perché questa è la notte fantastica dedicata alla nascita del figlio di Dio.
Ma la trasmissione del potere non investe solo il mondo magico comprende anche il quotidiano, secondo una nostra ipotesi peraltro ampiamente documentata ancora oggi nei paesi del basso Cilento, dove i giovani, seduti intorno al fuoco, ascoltano i racconti degli anziani: non è forse questo un modo per trasmettere il tesoro di una antica cultura?
IL CAPODANNO
Altra notte particolare è quella della fine dell’anno quando i giovani con botti, tamburi, botti di ferro che vengono rotolate sul selciato della strada, quasi a voler esorcizzare e scacciare il “male”, simboleggiano la cacciata dell’Anno Vecchio, che nella tradizione popolare assume le sembianze di un vecchio con la barba, e festeggiano l’arrivo dell’anno Nuovo, un bel giovanetto.
(A Lentiscosa, gli auguri sono espressi al suono degli strumenti musicali. E’ riportato un canto di auguri per un felice anno)
“E tire-tùppete mast’Francisco nci venga nu buon giorno e nu Buon Anno. Chi puozzi avere tanta feste e tanta uaragni, – Chi puozzi avere nu figlio Vescovo e n’ato Barone!”.
L’indomani di buon ora con la guantiera (vassoio) si recano a raccogliere la ‘mberta (offerta) con parole di augurio:
“Ciento e ciento re chiste jurnate … facìteme a ‘mberta”.
L’EPIFANIA
Dopo il primo dell’anno si aspetta l’ultima grande festa del periodo natalizio, “Ta epifàneia”, la manifestazione della Divinità che nell’Occidente ricorda l’adorazione dei Magi arrivati alla capanna di Betlemme, guidati dalla cometa ed è caratterizzata dalla tradizione, che si rifà ai doni portati dai tre re a Gesù, di offrire ai bambini dolci e giocattoli. Ma anche qui la tradizione ha portato delle variazioni: non sono più i tre re Magi a portare i doni ma una vecchia sdentata, la Befana.
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LA CUCINA NATALIZIA
Nel Sud ogni festa si celebra con una pietanza particolare e con dolci che sono solo di quel periodo. Natale, poi, che rappresenta la festa per eccellenza, nel Cilento si celebra con una ricca gamma di dolciumi che le nostre madri preparano con tale maestria da far invidia al dolciere più raffinato. Esse conservano nella loro mente il giusto dosaggio di ogni ingrediente e sanno come rendere appetibile il tutto con il profumo di noce moscata, cannella, chiodo di garofano.
I dolci natalizi
“Pastuccelle, pastorelle, panzarotti con la ricotta, nocche, nacatole, ‘nginette” sono i tipici dolci natalizi che nati dallo stesso impasto assumono denominazioni diverse e seconda della località. Cambia il ripieno che può essere costituito da castagne, da pere secche e mandorle tostate o da ricotta ma dappertutto dominano incontrastati la farina e le uova, lo zucchero e il vino bianco. La forma è una caratteristica di ogni dolce: le “pastuccelle” somigliano al fiore, le “pastorelle” (a Cuccaro) hanno la forma di una stella, le “‘nginette” quelle di un calice. E poi ci sono le “zeppule o ruospi o crespelle” che vanno dalla forma ovale a quella a spirale, un impasto di farina e uova che dopo la cottura in olio bollente vengono ricoperte di zucchero e miele. Ed infine ci sono gli “struffoli”, dolci anch’essi senza ripieno, formati da tocchettini di pasta fatta di farina ed uova (con un po’ d’olio, vino bianco e zucchero) fritti in olio bollente fino a diventare di un bel colore giallo oro e poi immersi nel miele per formare un tarallo ricoperto anche di piccoli confettini e frutta candita. Questo è il dolce di Capodanno, simbolo augurale di benessere e prosperità come pure il piatto a base di lenticchie.
IL DIGIUNO PENITENZIALE
Se i dolci natalizi hanno dell’eccezionale per odore e sapore, il pranzo della Vigilia di Natale ripropone il digiuno penitenziale, proprio delle vigilie delle feste, ma stavolta è caratterizzato da una precisa prescrizione di pietanze.
A Laurino, ad esempio, il digiuno viene chiamato “la Stella di Natale” e comprende tredici pietanze (quanti sono i giorni che intercorrono tra Natale e l’Epifania): baccalà (fritto o lesso), spaghetti con le alici, ruospi (o zeppole), castagne, noci ed altri frutti secchi. Il tredici qui ha un valore magico, come pure il nove (le nove pietanze) a Trentinara, collegato al mondo agro-pastorale.
IL PRANZO
Nel pranzo di Natale compare sempre il brodo di gallina, o come pietanza a sé (a Fornelli), o per condire la “minestra maritata” di cicorie e scarole ed osso di maiale. Altrove si usa mangiare il tacchino o il cappone ma è sempre un volatile da cortile che compare sulla tavola a Natale e si sa per certo, nella simbologia rituale, del suo legame con il mondo degli inferi. La gallina, infatti, compare nell’area centro-meridionale, come antica offerta votiva alle divinità dell’oltretomba, come è testimoniato da alcune statuine fittili nella necropoli di Paestum, e da tante leggende che fanno risalire il rinvenimento di immagini sacre (di qui la nascita di una chiesa, di un santuario o di un altro luogo di culto) proprio riferite a questi animali (la Madonna delle Grazie ad Ortodonico e a Cerrelli).
Ed ora a mò di conclusione vogliamo dire che tutte le notizie che abbiamo fin qui raccolto, le usanze che abbiamo registrato, i riti e le superstizioni che permangono dovrebbero servire a dare una traccia e uno stimolo allo studioso e al turista affinché si soffermi a valutare la stessa possibilità di un incontro con questa terra ricca di storia e tradizione.
Antonio Di Rienzo
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